di Michelangelo Tagliaferri, docente di Sociologia, fondatore Accademia di Comunicazione, Milano
La speranza, la gioia prima della gioia.
Difficile adattarsi a questo modo di ragionare. Più facile pensare che la paura sia una sofferenza prima della sofferenza. In qualche modo è come se procedendo nel tempo attraverso le varie culture e società i popoli abbiano identificato nella speranza l’antidoto ai mali che li affliggono.
La Speranza è un dono che si declina al femminile, non secondo le quote rosa, ma secondo natura. In qualche modo è un ritorno alle origini a quando, aprendo il vaso di Pandora, i mali si sono diffusi nel mondo e per volontà di Zeus è rimasta l’attesa del presente-futuro come riparo, oltre che dai mali dalla morte. Pandora che era femmina curiosa non ha obbedito e ha liberato tutti i mali del mondo, trattenendo infine il Timore del Futuro, l’ultimo dei rimedi: la Speranza.
Le culture popolari si sono mosse sempre in questa ambivalenza. Noi italiani siamo famosi per l’incoscienza del miracolo all’ultimo minuto. Aspettiamo l’ultimo dei rimedi come se fosse veramente la Speranza, il Timore del futuro, solo che oggi abbiamo nascosto la speranza dietro la paura. Eppure ce l’abbiamo sempre fatta a superare gli ostacoli che di sovente abbiamo creato per nostra superficialità ed incuria. Pensate cosa non abbiamo combinato nei momenti di emergenza?
Il famoso miracolo italiano è stato animato dalla speranza o dall’incoscienza di potercela fare, di non avere paura del futuro perché lo stavamo costruendo. Ora invece ci sembra che tutto sia già stato costruito. Dato per scontato. Oggi sembriamo un popolo di inconsapevoli impauriti. Ovviamente non è così. Noi siamo consapevoli e responsabili soltanto per ciò che crediamo sia vero e per il quale vale la pena di occuparsi, per il futuro già realizzato, per il passato. A quel punto interveniamo, ma senza prospettiva per il futuro. La femmina non partorisce più o ha già partorito. Oggi questa nostra capacità è oscurata dal timore e dalla paura del rischio che è diventato un sistema di calcolo delle probabilità. Il rischio ha preso il posto del pericolo ed tutto è calcolabile, che vuole dire monetizzabile.
Eppure nel primo lockdown non è stato così, anzi. Il pericolo lo abbiamo rivisto di nuovo ed abbiamo avuto di nuovo timore del futuro e abbiamo rianimato la Speranza nel suo accadere.
È durato poco e poi ci siamo abituati. Siamo diventati timo-dipendenti, inconsapevoli come gli animali che non comprendono che periscono. Eppure il nostro è un popolo di santi, poeti e navigatori. Eravamo di cultura contadina, di quella che non c’è più. Avevamo la Speranza e con lei la capacità di sopportare il cambiamento o l’avversa fortuna. Non vivevamo di probabilità statistica, avevamo più conoscenza che scienza. Oggi questa tendenza potrebbe salvarci se credessimo nel futuro. Infatti, queste nostre caratteristiche sono le prime che dovremo usare nella nuova società dei quanti, delle società nelle quali basterà pensare e progettare per realizzare anche ciò che è incredibile e che si chiama Vita.