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Intervista a Patrizia Del Puente

di Cinzia Grenci

Accelerare il cambiamento è il motto scelto dalla nostra presidente per indicare la necessità di mettere davvero tutti, soprattutto le donne, nella condizione di essere protagonisti
del futuro, di indicarne la rotta, di costruirlo.
E, sicuramente, ogni cambiamento, che è sempre, soprattutto, culturale e sociale, passa attraverso la lingua, che veicola stereotipi e atteggiamenti e che, di contro, può guidare
una radicale trasformazione nel nostro modo di guardare
alle differenze per favorire la massima inclusione.
Di questo vogliamo parlare con Patrizia Del Puente, docente di glottologia e linguistica all’Università degli studi della Basilicata.

In che misura discriminiamo mentre parliamo?

Se è vero, come è, che nella lingua si riflette il modo di essere, vivere e pensare di un popolo, allora è ovvio che se la società fissa dei criteri di discriminazione, questi si riflettono nella lingua che essa usa. La nostra società, ad esempio, discrimina ancora fortemente le donne e, se tale atteggiamento è concretamente e tangibilmente evidente nel gap che si rileva tra gli stipendi che percepiscono gli uomini e quelli che percepiscono le donne, tale discriminazione è ancor più evidente, a mio parere, nella lingua che parliamo. Abbiamo mai riflettuto sul fatto che per definire il genere umano si usa la parola “uomo”? Il detto “l’uomo è la misura di se stesso”, ad esempio, non ci è mai suonato offensivo o emarginante? Eppure sarebbe più corretto dire “la persona” “l’essere umano” in luogo de “l’uomo” per indicare un insieme di uomini e donne. Per nessun altro insieme nella nostra lingua useremmo come iperonimo di riferimento un iponimo della stessa categoria! E questo vuol dire che si riconosce all’uomo un ruolo di superiorità rispetto a quello della donna.
Facile dire: ormai siamo abituati, sono modi di dire che sono entrati nella nostra stessa carne, che fanno parte di noi. Se effettivamente ciò che è entrato e si è cristallizzato nella lingua fosse immutabile, non si capirebbe come mai si siano registrati, negli ultimi decenni, diversi cambiamenti volti a tutelare categorie o razze ritenute discriminate. Quello che era lo “spazzino” è diventato “operatore ecologico” e la “donna di servizio”, “colf” e così via. È stato proibito l’uso del termine “negro” percepito come offensivo per la razza africana e quello “giudeo”, stigmatizzato, viene sostituito da “ebreo”. Questi cambiamenti sono frutto di un intervento socio-politico e hanno creato attenzione e sensibilità, combattendo atteggiamenti classisti o razzisti. Insomma la lingua è una struttura dinamica e lavorare sulla lingua serve anche a riclassificare la nostra realtà.

Quali sono gli stereotipi più comuni fissati attraverso la nostra lingua?

Di stereotipi ce sono tantissimi e il problema più grande è che a volte vengono usati senza rendersi conto che causano situazioni di discriminazione, se non di vera e propria emarginazione. Molti stereotipi vengono veicolati dalla lingua in modo non troppo evidente e sono quelli più pericolosi, molto più di quelli marchiani tipo “chi dice donna dice danno” o simili. Faccio riferimento, per esempio, al fatto che per la donna esistono due termini inerenti al suo status di sposata o no: signora e signorina. Tale situazione linguistica è asimmetrica in quanto per l’uomo non abbiamo termini come signorino per chi non è sposato. Questo cosa sottintende? Che lo status della donna è sempre considerato in dipendenza da un uomo o il padre (signorina) o il marito (signora). Un’altra evidente discriminazione linguistica si rileva nella mancanza di applicazione delle regole grammaticali della lingua italiana, cosa evidentemente dovuta a un diffuso maschilismo all’interno della nostra società. Facciamo ancora una volta un esempio. Se devo rendere il femminile di cameriere la regola grammaticale mi impone la forma cameriera, se devo indicare il femminile di infermiere dovrò dire infermiera. Ma, allora, perché, ancora oggi, non si sente dire di una donna laureata in ingegneria che è un’ingegnera? Perché, se il femminile di chiamato è chiamata, non si usa, però, avvocata, ma, alla meno peggio, avvocatessa? Perché si deve usare il suffisso derivativo -essa laddove le regole grammaticali dell’italiano chiedono una normale flessione -o/-a?

È chiaro che il problema è di mentalità, di non accettazione che le donne possano svolgere, alla stregua di un uomo, mestieri che, fino a non molto tempo fa, le erano interdetti. Anche perché il titolo di Avvocata è, nella nostra tradizione religiosa, attribuito alla Madonna, almeno a lei non si nega…

C’è anche un problema di significati, oltre che di regole grammaticali. Pensiamo alla valenza di alcuni termini, alla connotazione di alcuni sostantivi, positiva se riferiti agli uomini e negativa se invece riferiti alle donne.

Verissimo! Basti pensare a un termine come governante proviamo a pensarlo al maschile e poi al femminile, la disparità di valore è chiara…

Si capisce anche perché Camusso, pur essendo una donna, è definita, data l’importanza del ruolo ricoperto, segretario e non segretaria o Marcegaglia amministratore unico e non amministratrice unica…
Non è lontana la triste polemica televisiva della direttrice d’orchestra che chiedeva di essere chiamata direttore.
E che dire di espressioni come buona donna che non ha certo lo stesso significato del corrispondente maschile buon uomo e donna di strada che non ha nulla a che fare con il corrispondente maschile uomo di strada. Si potrebbe continuare, ma credo di aver reso l’idea.

Da qualche tempo si è aperta una discussione anche piuttosto accesa sulla necessità di riformare il linguaggio per renderlo sempre più inclusivo e al passo con i tempi, non solo perché si adegui ai cambiamenti ma anche affinché li determini. Si tratta di processi che, evidentemente, hanno bisogno di tempi non certo brevi per produrre i loro effetti. Da cos’altro devono essere accompagnati?

Come dicevamo la lingua non può essere imposta, la lingua però cambia attraverso l’uso e l’uso può essere aiutato attraverso mirate strategie culturali e sociali. La lingua non è solo lo strumento finalizzato a trasmettere messaggi, la lingua consente la diffusione, la trasmissione di idee, di pensieri e in più descrive il mondo, la società che viviamo. Il contributo della lingua è fondamentale nel processo evolutivo di una società che vuole essere libera dalle discriminazioni, ma deve essere una lingua connotata da un uso consapevole del parlante, uso che può essere incanalato verso la giusta via dagli ambienti educativi per eccellenza che sono la scuola, l’università e la famiglia.

Quindi preparare i docenti a trasmettere una lingua scevra da condizionamenti sessisti è fondamentale. Una grande mano per aumentare l’attenzione di tutti su queste problematiche possono sicuramente darla le associazioni che hanno obiettivi culturali come la vostra.

Insomma, si può accelerare il cambiamento (per usare il motto del Soroptimist) attraverso la lingua?

Sì, certo. Non dobbiamo pensare che la lingua abbia un ruolo marginale, anzi si parte da lei per cambiare il pensiero.

Ma comunque io sono d’accordo con lo studioso John Baker che parlava di pluralismo strategico, ossia della possibilità di raggiungere un obiettivo proprio grazie a persone che lavorano su vari fronti per lo stesso risultato. Uno importante di questi fronti è proprio la consapevolezza con cui parliamo, scriviamo e ci esprimiamo. Quindi proviamo a partire anche da una maggiore attenzione alla lingua per condurre la lotta contro ogni discriminazione, per cambiare una realtà imperfetta.