L’unica al timone di tre prestigiose testate italiane
Intervista di Silvia Ruspa
Direttrice, ci può spiegare cos’è QN?
Si potrebbe definire una sorta di vetrina di tre testate storiche, prestigiose, Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione, nata dalla visione lungimirante di Andrea Riffeser.
Questa strategia ha reso possibile un coordinamento fra notizie di carattere internazionale, nazionale e locale con una valorizzazione del territorio, garantita dalle varie redazioni locali che spaziano dalla Lombardia all’Umbria.
Chiaramente, ciò ha comportato un lavoro complesso costruito sull’ascolto, la mediazione, la pazienza nella selezione delle notizie delle varie redazioni ma è ciò che rende unico QN all’interno del mercato editoriale italiano dove la carta stampata, da ormai ventanni, sta perdendo enormi fette di mercato. Il radicamento territoriale di QN costruito sulla familiarità, sulla tradizione e storicità, sulla consuetudine delle tre testate sopra citate funge da ancoraggio nella caduta verticale delle vendite dei quotidiani, in Italia.
Inoltre, la valorizzazione del territorio fa si che notizie locali che rimarrebbero escluse dal circuito nazionale possano emergere ed assurgere, a seconda dei casi, alla diffusione nazionale.
Come si arriva alla Direzione di QN?
Tre anni or sono, venni nominata direttrice de La Nazione di Firenze, a soli 34 anni.
Fu una nomina del tutto inaspettata, proprio in quanto prevedeva un ruolo direttivo da parte di una donna. Si trattò, allora come ora, di una chiara espressione di volontà di genere, da parte dell’Editore.
Se non ci fosse stata questa espressione di valorizzazione di genere, non sarei diventata direttrice de La Nazione, allora e di QN, ora. Purtroppo, in Italia, è ancora impossibile per una donna raggiungere ruoli professionali direttivi, soprattutto in alcuni ambiti di attività e, sicuramente, il giornalismo si colloca fra questi. In effetti, non ho termini di paragone o modelli a cui ispirarmi. Mi rendo conto di rappresentare un’unicità nel panorama editoriale italiano e, proprio per questo, mi sento ulteriormente stimolata a migliorarmi, ponendomi l’obiettivo di una continua formazione professionale e personale.
Esiste un problema di scelta che parte da chi sceglie. È giusto dire e ribadire che io non sono e non mi considero la giornalista donna migliore nel panorama editoriale italiano. Mi è stata concessa un’occasione tramite il meccanismo delle Quote Rosa che rappresentano, incontrovertibilmente, una forzatura ed una distorsione anche rispetto al valore della meritocrazia ma che in un Paese come l’Italia, dove la metà di chi svolge la professione giornalistica è donna, diventa l’unica possibilità di assurgere a ruoli direttivi.
L’ISTAT ci rivela che nel 2021, in Italia seconda manifattura d’Europa oltre che Paese fra i più industrializzati al mondo, mediamente, solo il 49% delle donne è impegnata in un’occupazione stabile, praticamente, una donna su due. Mentre, la percentuale scende al 30% nel Mezzogiorno. La freddezza dei numeri non parla, poi, delle conseguenze di queste rilevazioni in termini di mancanza di autonomia economica, sociale, ma anche negli equilibri familiari.
Quindi, le quote rosa rappresentano un’occasione che non va sprecata per arrivare a giocare delle partite senza handicap in partenza causati dall’identità di genere.
Come si è trovata a dirigere anche i suoi colleghi uomini?
Non sperimento differenze particolari nella direzione. Dirigere coincide, fondamentalmente, nel guidare le scelte degli altri. E ciò lo si fa partendo dall’etica del proprio ruolo ma anche della propria personalità, da chi siamo intimamente. Trovo sbagliato e pericoloso assumere ruoli precostituiti che non ci appartengono. Il giornalismo che si svolge in redazione si configura come l’attività in cui la scelta è strumento essenziale. La cosiddetta linea editoriale è l’insieme di scelte che la direttrice pone in essere con la sua redazione. E siccome la scelta è opinabile, il giornalismo è il mestiere dove si “sbaglia” maggiormente. Il margine di errore è elevatissimo, soprattutto in un quotidiano. Il deterrente consiste nel fatto che i giornali sono prodotti da tante persone per cui esiste una sorta di controllo e gestione dell’errore interna alle singole redazioni.
Questa la differenza fondamentale con l’influencer che lavora solo.
La direttrice si assume l’ultima fetta della scelta ed è colei che è responsabile della linea adottata.
Esiste una differenza di stile comunicativo soprattutto nella descrizione di fatti di violenze sessiste, fra giornalisti uomini e giornaliste donne?
No, non esiste perché siamo tutti immersi nella stessa cultura.
Gli strafalcioni o, peggio, le insensibilità di alcuni titoli (“Uccisa dal marito che pensava lo tradisse”…) li scrivono sia gli uomini che le donne perché apparteniamo allo stesso filone socioculturale. Dobbiamo sforzarci di utilizzare un linguaggio consono, evitando parole distorte e distorsive. È un compito fondamentale che ogni professionista dell’informazione deve imporsi. Ci si deve sforzare adottando registri semantici eccentrici rispetto alla cultura ancora dominante, sessista nei fatti.
Da questo punto di vista il confronto con le varie reti sociali è molto utile perché nella sua immediatezza aiuta la carta stampata in un percorso di autoconsapevolezza e supervisione.
L’utilizzo della declinazione di genere femminile in alcuni termini può rafforzare l’identità femminile?
Se ci si vuol riferire alla “questione” Treccani, penso che, semplicemente, Treccani abbia recepito la vera essenza della lingua italiana che ha straordinarie sfumature fra le quali la declinazione di genere. Personalmente trovo allucinante il dibattito che si è aperto circa le prese di posizione relative alla declinazione di genere delle parole, in particolare, di quelle che definiscono l’ambito professionale delle donne.
La discrasia è, ancora una volta, culturale e non linguistica. Le donne debbono avere l’autonomia di scegliere il proprio nome. Negli anni settanta il dibattito era centrato sul corpo (il corpo è mio e lo gestisco io), ora, sembra si sia spostato sul nome (il nome è mio e lo scelgo io. ndr) Io ho scelto di chiamarmi e farmi chiamare direttrice ma rispetto, senza alcuna giudizio, chi preferisce il termine declinato al maschile.
Viviamo in un Paese che giudica, in modo acrimonioso, il nome con cui le donne decidono di farsi chiamare.
Quali le direzioni di lavoro per traguardare la parità di genere?
Innanzi tutto riconoscendo la reale situazione di disparità in cui, ancora, vivono le donne. Il cambiamento può avvenire solo se sono chiare le condizioni di partenza. Ovvero, va compresa ed analizzata la condizione femminile in Italia, neutralizzando le disparità con ogni mezzo. In primis, l’ambito politico perché il gender gap lo si contrasta tramite l’elaborazione di leggi mirate che consentano il riconoscimento di diritti fondamentali in ambito assistenziale, formativo, economico oltre che professionale. Poi, certamente, ciascuna di noi può e deve agire, in proprio, nell’ambito delle proprie facoltà affinché gli equilibri cambino, siano più stabili, cercando di imprimere la propria identità nei rapporti personali col proprio partner, coi colleghi, nelle relazioni sociali, in genere. Certamente, il cambiamento rende insicuri e, spesse volte, soprattutto le donne più giovani si convincono di non essere all’altezza di determinati incarichi, di non riuscire ad essere sufficientemente brave e preparate per affrontare ruoli direttivi. In realtà mancano le occasioni per dimostrare la tenuta e le proprie capacità. Bisogna creare occasioni nuove alle donne, anche attraverso forzature. La mia storia professionale lo sta dimostrando.
La mancanza di occasioni, rende le donne più fragili e perennemente timorose nei confronti delle critiche circa il loro operato, oltre che vittime di negazione sociale.
La propria identità si costruisce e si rafforza, ogni giorno, diventando (come dice Nietzsche) ciò che si è.