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Soroptimist e-club

Conosciamole da vicino

L’ARTE creativa

Althea BacchettiExibition Designer

EmpowerNet Milano

Di solito quando parlo del mio lavoro, mi definisco Interior designer, il che fa spesso pensare alla progettazione di ambienti residenziali; certo per arredare la casa in cui abito mi sono data da fare ed è stato divertente progettarla nei minimi dettagli, ma gli spazi e gli ambienti da progettare sono moltissimi e i settori di applicazione diversi tra loro. La laurea magistrale in Interior design che ho conseguito presso il Politecnico di Mila- no, mi ha permesso di acquisire un metodo progettuale e dei riferimenti storici applicabili alla scala degli interni e utilizzabili per diverse destinazioni d’uso. Nello specifico io mi occupo di exhibition design, ovvero di progettare allestimenti per mostre tem- poranee e musei, i quali sono da intendersi oggi come luoghi portatori di diverse storie e non più legati unicamente all’arte e ai reperti storici; nello studio in cui lavoro, ad esempio, abbiamo progettato un museo sul futuro. Ciò che più apprezzo del mio lavoro è la sua forte componente creativa; ogni progetto è un mondo a sé e ogni volta si rende necessario approfondire un nuovo argomento, analizzandolo nelle sue parti per capirne gli aspetti fondamentali da raccontare. Il racconto e il tipo di narrazione che si adotta, sono infatti aspetti molto importanti da considerare. Le diverse sezioni di una mostra o un museo servono a metterne in luce gli aspetti più significativi, fornendo al visitatore una chiave di lettura utile alla sua comprensione.

E come ogni storia, per essere raccontata c’è bisogno di una o più ambientazioni.

Quello che progetto non si limita pertanto alla teca o all’espositore, ma è l’esperienza complessiva che coinvolge tutti e cinque i sensi del visitatore durante il percorso di visita. Si presta attenzione alle distanze, alle proporzioni, ai colori e alla luce, ma anche ai suoni e talvolta agli odori o alle sensazioni tattili dell’ambiente che si sta progettando, il quale ha la capacità di avvolgerci e far emergere in noi sensazioni complesse.

Non per ultima c’è la componente tecnologica, oggi sempre più presente anche all’interno degli spazi culturali. Questo strumento offre la possibilità di stupire il visitatore, talvolta coinvolgendolo attivamente; nello studio in cui collaboro, progettiamo spesso allestimenti che prevedono la presenza di exhibit multimediali e interattivi, questo perché il digitale dà la possibilità di conte- nere più informazioni su un unico supporto, ad essere facilmente aggiornabile. Il mio lavoro si articola in diverse fasi, da quella iniziale di concept, a quella di definizione e infine realizzazione di un progetto. Collaborando in uno studio composto da una decina di persone, ho avuto spesso negli ultimi anni, la fortuna di seguire progetti per intero, coordinandone le tempistiche e la gestione delle risorse interne, oltre a tenere i contatti con il cliente. Nell’ultimo periodo, oltre ad avere seguito i progetti di due musei tra Milano e Torino, sto progettando una mostra a New York e sono molto grata di avere la possibilità di svolgere una professione così dinamica, ricca di stimoli e nuove sfide, ma anche estremamente gratificante.

Vita in azienda tra deadline, KPI e sacrifici

Maddalena VaruttiOrganizational Development Manager

Milano Net Lead

“Vorrei parlare con il vostro Manager, qui c’è una situazione difficile ed ero d’accordo che il progetto sarebbe stato gestito non da due ragazzine.”

Lei mi guarda.
È stato un momento importante che ha segnato la mia carriera e contemporaneamente la mia cre- scita personale. Una di quelle due ragazzine ero io, 28 anni, camicia bianca, scarpe antinfortunistiche, profumo Shantung e manager del progetto. All’epoca lavoravo per una società di consulenza specializzata nella trasformazione Lean delle aziende ed ero ai primi tornanti della mia strada in netta salita, iniziata qualche anno prima dopo una breve esperienza in una azienda del settore arredo. Avevo scelto di entrare in consulenza perché migliorare e raggiungere gli obiettivi era un suono che scolpiva ogni mio passo, caratterizzava il mio essere donna, atleta e ingegnera. L’idea di trasformare un’azienda, mi attirava. L’idea di poterlo fare in tante aziende diverse, mi attirava ancora di più. Quando entri in consulenza, entri in un altro mondo, una vita parallela fatta di deadline, KPI e sacrifici, questo è quello che chiunque abbia fatto questo percorso afferma mentre beve una tazza di caffè in un ristorante cool con due telefoni appoggiati sul tavolo, una carta dal plafond esteso in tasca e 100.000 miglia premio della Compagnia aerea accumulate su un’app di cui non ricorda le credenziali. Diversi anni e diversi clienti dopo, gestivo con piacevole tensione svariati progetti, non senza difficoltà: dall’amministratore delegato che non percepisce il beneficio del progetto all’operatore che non ha alcuna intenzione

di mettersi in discussione, da una vendita mancata a tavolate di sole cravatte, ma sempre con quella voglia di crescere e far crescere che mi garantiva un sorriso prima di addormentarmi. Avevo soddisfazione e macinavo obiettivi in modo direttamente proporzionale ai chilometri che percorrevo in autostrada. Poi il treno. Cambiare, verbo che utilizzavo in milioni di frasi presso i clienti, ma del quale non ne avevo mai assaporato appieno il gusto. Cambiare radicalmente stile di vita, cambiare impegni, cambiare strade, cambiare me stessa, cambiare lavoro. Cambiare una via che avevo già disegnato, anche nel dettaglio. Questa sono io, Maddalena Varutti. Cambiare non significa ripartire da zero, cambiare è conoscere e vivere nuove idee, nuove sfide e nuove persone, con una architet- tura portante fatta di tante piccole e grandi esperienze. “Uno zaino in spalla”, mi dissero, “sta a te ca- pire cosa vuoi metterci dentro”. Ora lavoro come Organizational Development Manager a Fassa Bortolo, azienda leader in Italia e a livello internazionale nella produzione di soluzioni per l’edilizia. La mia grande soddisfazione è vedere che l’Azienda, adottando metodi scientifici, persegue il mi- glioramento adattandosi ai costanti cambiamenti, costruendo e rafforzando strategie, strutture e processi. Lavorare a progetti di sviluppo organizzativo, non basta applicare il metodo, lavorare con le persone è sfidante, ed è proprio quando le persone agiscono dei cambiamenti che scopro me stessa, i miei limiti e le mie abilità. Divento consapevole. La consapevolezza penso sia alla base di ogni percorso di crescita, sia personale che aziendale, indipendentemente dalla professione svolta. Un’azienda fatta di persone consapevoli è un’azienda vincente, che sponsorizza proattività e collaborazione, fondamentali per raggiungere gli obiettivi, motivo per cui è importante sensibilizza- re sull’importanza del team coeso, specialmente eterogeneo. Ho la fortuna di poter collaborare con molte aree aziendali e affrontare sfide a diversi livelli, con persone stimolanti che ritengo delle linee guida, perché la vita aziendale ha molte dinamiche anche critiche, che viste dall’interno hanno una loro umanità, una loro singolarità e pertanto meritano un approccio tailored. Ciò che mi affascina è appunto tenere un equilibrio tra teoria e concretezza, chiave per riuscire a gestire al meglio i progetti e raggiungere le performance obiettivo, o come mi piace dire tenere la testa tra le nuvole e i piedi per terra. Se tutto questo fosse facile, molto probabilmente, non lo avrei condiviso con voi lettrici e lettori. Se tutto questo fosse un punto di arrivo, vi avrei raccontato della bellezza del mare al tramonto visto da una sedia sdraio.

Se tutto questo fosse solo… sta a voi.

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Un progetto di cittadinanza attiva

Si è cercato di stimolare la sensibilità delle ragazze e dei ragazzi nei confronti della cosa pubblica, con l’intento di sviluppare la cultura della legalità e della partecipazione attiva alla vita delle istituzioni e a favorire un loro rapporto partecipativo e paritario alla vita collettiva

di Silvia Di Batte

Dal luglio 2022, quando il progetto è stato lanciato dalla PN Giovanna Guercio, sono passati mesi di grande lavoro, sia per i Club che hanno aderito, sia per i ragazzi delle scuole che sono stati coinvolti. Per non parlare di Paola D’Ascanio, club dell’Aquila, referente nazionale e del gruppo di lavoro, composto da Gianna Colagrande, anche lei dell’Aquila e da Linda Schipani, del club di Messina.

Il progetto nasce nell’ambito dell’i- dea progettuale complessiva di “La città che vorrei” ed è stato organizzato per coinvolgere in modo attivo e propositivo i giovani, gli studenti delle istituzioni scolastiche secondarie di primo e di secondo grado e degli Istituti Tecnici Superiori, con l’obiettivo di stimolare i giovani a proporre idee di retrofitting dello spazio urbano o proposte totalmente innovative.
Il parterre dei soggetti coinvolti in questo lavoro va dunque dalle socie dei Club che hanno aderito, dai docenti degli istituti scolastici, da- gli esperti di pianificazione urbana ad animatori/conduttori di gruppi di lavoro, ad Amministratori locali, ordini professionali, fino ad arrivare

ai componenti della giuria per la valutazione degli elaborati.
Il successo è stato notevole, se si prendono in considerazione i dati numerici dei Club coin- volti, del numero degli elaborati che sono ar- rivati e delle classi che hanno partecipato (si veda a proposito i dati a lato).

Un lavoro “corale”, dunque, con la finalità di sondare le modalità con cui i giovani si relazionano con l’ambiente urbano in cui vivono, di scoprire quali sono le criticità che essi vi riscontrano e, soprattutto, di raccogliere le loro idee, proposte di miglioramento, progetti sui vari temi chiave, dall’assetto urbano alla valorizzazione del patrimonio culturale, all’efficienza dei servizi, alla riduzione dell’impatto ambientale.Si è cercato di stimolare la sensibilità delle ragazze e dei ragazzi nei confronti della cosa pubblica, con l’intento di sviluppare la cultura della legalità e della partecipazione attiva alla vita delle istituzioni e a favorire un loro rapporto partecipativo e paritario alla vita collettiva. In breve, un grande esercizio di cittadinanza attiva.

A conclusione del progetto il 6 giugno 2023 è prevista, in Campidoglio, a Roma, la premia- zione dei team di giovani che hanno superato le selezioni a livello nazionale.

La Giuria che esamina gli elaborati e proclama i vincitori è composta da Massimo Roj, architetto, fondatore e AD di Progetto CMR da Donatella Caniani, ingegnere ambientale, docente della Università di Potenza (Soroptimist club Potenza) e da Valeria Villa, storica dell’arte, conservatrice – restauratrice, socia fondatrice di Cultura-Valore Milano (Soroptimist club Varese).

Abbiamo chiesto ai giurati il loro punto di vi- sta e le loro impressioni “a caldo”, mentre an- cora stavano esaminando i lavori dei ragazzi.

LOCANDINA_Ri-Generazione Città Giovane

I nuovi cittadini dall’animo green

Chiediamo alle due giurate soroptimiste Valeria Villa, Club di Varese e Donatella Caniani, Club di Potenza, come hanno affrontato il loro compito.
È utile far notare che la scelta è ricaduta su due socie i cui club di appartenenza non hanno partecipato
al progetto e che avevano le necessarie competenze in campo di urbanistica.

I ragazzi sono stati molto critici nel riconoscere dapprima alcune criticità dei contesti in cui vivono e nel proporre soluzioni di valorizzazione e tutela decisamente innovative e fantasiose.

di Valeria Villa

Con quale spirito hai accolto la proposta di far parte della giuria?

Ho accolto l’invito con piacere e riconoscenza, pur consapevole di aggiungere carico alla mole di lavoro che già mi impegna abbondantemente, ma con spi- rito di servizio e grande curiosità per il vero Patrimonio umano che detiene il nostro Paese: i nostri giovani.

Quali sono le tue aspettative rispetto alla capacità di analisi dei ragazzi?

Da donna Soroptimista, mamma di due ragazzi ormai grandi, attiva da sem- pre a livello didattico e formativo per l’educazione al Patrimonio culturale, ero certa di trovare importanti spunti di riflessione e idee innovative.
I ragazzi difficilmente tradiscono tali aspettative: creatività, fantasia, ricer- ca, critica, proposizione sono solo alcuni degli aspetti salienti intercettati nei progetti esaminati.

Dagli elaborati dei ragazzi che idea ti stai facendo del loro modo di essere cittadini?

Attraverso le proposte esaminate si evince un forte influsso educativo prove- niente dal corpo docente, dalle famiglie di provenienza e dal contesto sociale dal quale provengono i ragazzi.

Notevole la differenza degli approcci tra le scuole primarie e seconda- rie ma in tutti i lavori esaminati, provenienti da città di differenti am- biti geografici, con valenze e problematiche differenti, noto a comune denominatore l’assimilazione di un processo educativo molto evoluto. I ragazzi mi paiono presenti, consapevoli e propositivi; mi hanno sorpre- so in modo particolare la presa di coscienza del valore del Patrimonio naturalistico, architettonico, urbanistico e storico-artistico, il tentativo di valorizzarlo con proposte di sostenibilità economica e ambientale, con particolare attenzione rivolta ai bisogni effettivi delle giovani gene- razioni, aspiranti a creare luoghi di incontro, di scambio, condivisione e inclusione sociale. Credo potranno essere cittadini consapevoli e impegnati per la salva- guardia, tutela e valorizzazione del Patrimonio nazionale.

Hanno saputo individuare criticità? Hanno saputo proporre delle soluzioni?

Certamente sono stati molto critici nel riconoscere dapprima alcune criticità dei contesti in cui vivono e nel proporre soluzioni di valoriz- zazione e tutela decisamente innovative e fantasiose.
Alcuni di essi si sono spinti a trovare e proporre soluzioni tecniche, di natura architettonica e addirittura tecnologica, votate alla sostenibilità ambientale, all’efficientamento energetico, alla mitigazione dell’impat- to sull’ambiente: insomma un processo di sintesi che parte dall’appro- fondimento delle conoscenze per giungere a innovative soluzioni eco- sostenibili: grande lavoro!

Saranno cittadini attivi o passivi?

Indubbiamente saranno cittadini critici, capace di discernere, di interrogarsi, di analizzare, studiare e ricercare per poter risolvere problemi e proporre miglioramenti, mitigazione di cause di degrado, in un’ottica di cittadinanza consapevole, educata ed inclusiva. Credo che questo progetto, come altri analoghi o perlomeno orientati alla formazione di una futura generazione di cittadinanza attiva e consapevole, siano processi preziosi di affiancamento alle Istituzioni e che la disseminazione degli esiti di tali importanti progetti debba essere lo step ulteriore del nostro impegno: senza condivisione della grande mole di lavoro svolta da Soroptimist, dai docenti, dalle scuole, dai ragazzi, dai professionisti chiamati a studiare e valutare, tutto questo importante lavoro decadrebbe a breve. Suggerisco pertanto di mettere a sistema queste testimonianze in una raccolta di best practices da promuovere e divulgare con soluzioni innovative di comunicazione, magari attraverso le fonti ministeriali di comunicazione.

Donatella Caniani

Far parte della giuria di questo concorso cosa ha significato per te?

Far parte di questa giuria ha rappresentato, per me, una vera e propria quadratura del cerchio, il com- pimento di una serie di attività, che sto svolgendo come docente universitaria di Ingegneria Sanita- ria-Ambientale, legate allo sviluppo di progetti per la creazione ed il rafforzamento di Comunità di cit- tadini, che si aggregano e coagulano attorno ai temi della salvaguardia e della sostenibilità ambientale. La creazione di nuove e più solide comunità di cit- tadini è, infatti, al contempo strumento ed obiettivo degli interventi di rigenerazione urbanistica, am- bientale e sociale di aree urbane degradate. Il suc- cesso di tali azioni passa anche attraverso la robusta e vivace collaborazione tra cittadini consapevoli e correttamente informati.

C’è quindi uno stretto legame tra la rigenerazione sociale, intesa anche come costruzione di nuove comunità di cittadini, e le questioni legate alla protezione dell’ambiente?

Nel quadro della crescente pressione a cui produ- zione e consumi sottopongono le risorse mondiali e l’ambiente, la transizione verso un’economia cir- colare risponde al desiderio di crescita sostenibile, e, contrapponendosi al modello di sviluppo lineare, si orienta verso altre priorità, verso valori antichi che sembravano perduti ma che diventano il fulcro del nuovo modello di sviluppo: riutilizzare, aggiustare, rinnovare, riciclare. L’attenzione crescente verso l’u- so e il riuso effificiente delle risorse naturali e il riciclo dei rififiuti come ‘materia prima-seconda’, mi ha spin- to a sviluppare progetti specififici, che mirano a co- struire nuovi modelli circolari di valorizzazione dei rifififiuti. Tali obiettivi possono essere raggiunti, però, solo utilizzando un approccio centrato sulle persone, responsabilizzando la società civile e promuovendo modelli di aggregazione che rappresentano, a loro volta, terreno fertile per la divulgazione delle proble- matiche ambientali, e contribuiscono allo sviluppo di strategie comunicative integrate, ad esempio con

informazioni personalizzate, per promuovere il cam- biamento dei comportamenti, modificare conoscen- ze, consapevolezza e atteggiamenti. I giovani sono senz’altro i nostri “modelli” più efficaci di divulga- zione e propagazione di comportamenti virtuosi. An- che dallo studio dei loro bisogni bisognerà partire se si vorranno ri-progettare città e quartieri sempre più vivibili e rispettosi dell’ambiente.

I ragazzi hanno saputo individuare criticità? Hanno saputo proporre delle soluzioni?

I ragazzi non deludono mai. Quando li si coinvolge con un bel progetto, rispondono dando il meglio di loro stessi. Con il supporto dei loro docenti, hanno saputo, attraverso lucide analisi critiche, in alcuni casi supportate da indagini sociologiche, condotte anche attraverso la somministrazione di questiona- ri, individuare le criticità e i bisogni, tanto a scala di città quanto a quella di quartiere e di singolo proget- to, proporre soluzioni contestualizzate, concrete e realizzabili, molto ben sviluppate dal punto di vista tecnico e metodologico, caratterizzate in molti casi da un notevole livello di originalità e innovazione.

Dagli elaborati dei ragazzi che idea ti stai facendo del loro modo di essere cittadini? Saranno cittadini attivi o passivi?

Gli elaborati mi lasciano ben sperare per il futuro. Le città saranno sempre più interessate da azioni di rigenerazione per obiettivi quali riciclo di materiali, effifificienza energetica, forestazione urbana, mobilità sostenibile.

I recenti sviluppi delle politiche pubbliche e della rigenerazione urbana richiederanno sempre di più la partecipazione diretta e sempre più attiva dei cit- tadini. I giovani saranno i nostri migliori alleati, i veri buoni cittadini del futuro, che contribuiranno con le loro idee a ripensare e ri-generare le nostre città alla luce delle analisi degli indicatori della pia- nifificazione per insediamenti sicuri e green e sempre di più a misura delle nuove generazioni.

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Roj Massimo ridotto

Dopo gli stordenti anni 50 si ripensa la città a misura d’uomo

Tornano i valori del passato su cui costruire oggi il futuro dei giovani.

Intanto che attendiamo di ascoltare la voce dei giovani studenti attraverso gli elaborati del concorso del Soroptimist “Rigenerazione città giovani”,ci interessa avere una visione su come oggi ridisegnare la città per essere attrattiva soprattutto per i giovani. Lo chiediamo a Massimo Roj, architetto con molteplici esperienze internazionali, fondatore e amministratore delegato di Progetto CMR.

Sicuramente la città va pensata come un luogo più inclusivo, più rispettoso delle diversità e delle esigenze delle persone. Noi progettisti dobbiamo cercare di progettare per le persone che useranno gli spazi, tutto deve partire dalle necessità dell’essere umano. Il periodo critico che abbiamo vissuto negli ultimi anni ci ha fatto riscoprire alcuni valori che nella città di oggi forse ci eravamo dimenticati, come i negozi di vicinato, i luoghi dell’incontro e socializzazione, la piazza, il giardino…

Quando noi eravamo piccoli c’erano, ad esempio, anche gli oratori.

Bisogna pensare oggi a degli oratori laici dove giovani e bambini possono iniziare a incontrarsi, ma dove anche le diverse fasce di età possono trovare una modalità di interazione innescando nuove forme di comunità: ad esempio gli anziani possono prendersi cura dei bambini, così come anche il giovane può aiutare l’anziano e viceversa.Scendere da casa e trovare il negozio invece di prendere la macchina e andare al centro commerciale è un fattore di miglioramento della vita. Riducendo i consumi e l’inquinamento, la presenza di questi luoghi diventa l’elemento stesso della nostra evoluzione. Ricordiamoci che tutto è nato intorno al fuoco del campo, quando gli uomini, gli antenati, i cacciatori, si incontravano e alla fine della giornata parlavano delle loro gesta, della caccia piuttosto che delle esperienze avute. Il fuoco è diventato la piazza e intorno ad essa è cresciuto prima il paese, poi la città e poi le grandi metropoli.

La città di oggi deve essere sempre più policentrica, in ognuno dei suoi quartieri devono essere presenti tutte quelle funzioni vitali che permettono alla popolazione di muoversi all’interno del quartiere stesso, trovando tutto quello che è necessario alla propria esistenza. Quindi dall’abitazione al lavoro, dal commercio alla scuola, alla sanità e soprattutto ai luoghi di incontro. Una città aperta a tutti, eliminando l’effetto “ghetto” che abbiamo creato negli anni passati con le migrazioni che le città hanno subito e la desertificazione dei servizi.

Ci sono quartieri di grandi città come Roma e Milano, dove tutto ciò è estremamente evidente, ma anche piccoli centri urbani hanno questa caratterizzazione.

Bisogna riportare spazio vivibile all’interno dei centri urbani, iniziando con il rivisitare quello che abbiamo, magari anche attraverso un processo che liberi il suolo. Se vogliamo pensare che il futuro non sia più definito per aree di estrazione sociale ma che ci sia molta più inclusione, anche i criteri di assegnazione delle case non possono essere solo esclusivamente legati al reddito, ma alla possibilità di far convivere le diverse fasce anche in termini di età come dicevo prima. Dai più giovani ai più anziani, entrambi parte di una stessa realtà.

Riemergono, quindi, i valori del passato, quando nel quartiere ci si sentiva “a casa”?

Mi piace dire sempre che per disegnare il futuro dobbiamo comprendere e ricordare il passato. I nostri antenati vivevano in condizioni comunque piacevoli, con delle città a misura d’uomo. Però negli anni 50 c’è stato chi ha teorizzato la città suddivisa per funzioni: il quartiere per dormire, quello per lavorare e un altro per comprare. Modello che, dalle città americane, grazie al potere economico degli Stati Uniti, si è esteso negli altri Paesi in via di sviluppo. Sono nate così le piazze artificiali, i grandi scatoloni dei centri commerciali che hanno ucciso i negozi di vicinato. Molti dei nostri Paesi medievali, dei nostri borghi antichi sono morti proprio al nascere di questi nuovi fenomeni.

Lei vede possibile un ritorno al passato con i centri commerciali che, potenti come sono, cercheranno di ostacolare questo processo?

Ritorno al passato è un ritorno alla modalità di vita che era più consona alla storia della nostra evoluzione. Abbiamo vissuto un cinquantennio stordente. Oggi anche nei paesi in via di sviluppo si stanno ripensando i luoghi del vivere in modo che permettano la compresenza di funzioni diverse. Non più andare in un luogo per fare un’attività specifica: in quest’ottica, mi piace parlare del passaggio da quello che definiamo in termini inglesi “office space”, ossia degli spazi di lavoro, a “living place”, luoghi del vivere dove lavorare, studiare, abitare, fare diverse attività .

Un esempio pratico di come usare i luoghi diversamente?

Le nostre città in gran parte delle giornate rimangono vuote: pensiamo agli uffici, che vengono occupati 8 – 10 ore al giorno, come pure gli alberghi. Perchè non pensare a funzioni che possono in qualche modo mettere insieme diverse attività e quindi occupare tutto l’arco della giornata? Noi abbiamo progettato, naturalmente con degli accorgimenti, un luogo del genere funzionante 24 ore su 24: l’abbiamo chiamato “officetel”, ufficio di giorno e albergo di sera.

Per accogliere una visione del genere però occorrono menti brillanti, lungimiranti.

La città è frutto di un’azione politica. Il problema da noi è che si va direttamente con la progettazione senza prima porre a monte una programmazione ventennale/ trentennale con una pianificazione a medio e breve tempo soggetta a revisioni periodiche in funzione dei cambiamenti sociali che avvengono all’interno dello sviluppo della nostra amata terra.

Questo tipo di percorso permetterebbe il cambio di rotta che tanto auspichiamo.

Come possono spingere i giovani per andare in questa direzione?

La politica si deve fare partecipe e attore fondamentale. I giovani possono spingere, però c’è sempre meno amore, lo si vede anche dall’assenteismo elettorale, non c’è più la scuola di politica che c’era magari una volta e quindi oggi scarseggiano i giovani che possano arrivare a fare politica per migliorare le condizioni complessive del Paese. C’è da lavorare tanto anche su questo e se ne rendono conto i giovani stessi. Iniziative come il vostro concorso del Soroptimist sono sicuramente interessanti ed estremamente utili, perché ci aiutano a capire come questi ragazzi vedono il loro futuro e quali sono le loro speranze e i loro sogni

PENSIERI

Perseguire le vie della Pace

“Hai un sogno nel cassetto?”, mi sussurrava sempre una voce nella testa quando faticosamente cercavo di risolvere un problema esistenziale di lavoro o di routine quotidiana. Ebbene sì! Qualche sogno nel cassetto da sempre coltivo. Forse, inconsapevolmente, nutro fin dalla mia adolescenza il desiderio di fare qualcosa d’importante per l’umanità.

Non un solo sogno, in verità più di uno… Ma l’esperienza mi ha insegnato che i sogni vanno coltivati con passione. Mi riecheggia, di quando in quando, nella testa la famosa frase di Martin Luther King: “I have a dre- am”. Il suo sogno, così semplicemente espresso, sicuramente si è realizzato anche se poi è stato ripagato con una moneta intrisa di sangue.

Qual è il mio sogno allora? Non certo il possesso di automobili di lusso, di vestiti alla moda, di monili o di oggetti vari. Il mio sogno non sa neanche solo di natura e di mare, che amo incondi- zionatamente.

Camminando lungo le amene spiagge del Mar Tirreno, abbracciato dai Monti Aurunci che fan da corona al Golfo di Gaeta, mi fermo ad osservare rispecchiarsi nelle acque cristalline, in questo periodo quasi primaverile, l’immancabile azzurro terso del cielo e il verde in gestazione delle colline amene. Tutto parla di primavera incipiente, anche il rumoreggiare dei marosi quando l’apparente quiete viene bruscamente interrotta da improvvise tempeste.
Sembra quasi che un’impalpabile felicità prenda possesso della mia anima inducendola a trastullarsi nel suo mondo poetico. Eppure, una sottile inquietudine affiora, una sommersa sensazione di amarezza tra le pieghe dei giorni che avanzano in costante processione.

Un anno di guerra è riuscito a coprir- mi di una cappa grigia attraverso l’eco lontana di assordanti combattimenti, una percezione che pareva appartenere ad epoche del passato, relegate nei racconti di guerra di mio padre e mia madre. Il primo, prigioniero nei campi di concentramento nazisti, catturato a Pola insieme all’equipaggio della nave su cui si trovava, giovanissimo ufficiale della Marina Militare Italia- na che non aveva voluto aderire alla repubblica di Salò; la seconda, quin- dicenne in fuga, insieme a mia nonna, per le campagne attigue alla mia cittadina di Gaeta, mentre mio nonno era esule in America con altri due figli maschi.

Purtroppo, la storia si ripete con i suoi corsi e ricorsi di vichiana memoria. Appare annuire la folta chioma del centenario carrubo che ho voluto con- servare nel mio giardino prospicente una vecchia macera, uno di quei muri eretti dai contadini per dividere i loro appezzamenti di terreno da coltivare. Mentre la presenza del carrubo mi rammenta le vicende belliche della Seconda Guerra Mondiale, il mio sguardo vaga in lontananza quasi a cercare un punto di riferimento. All’orizzonte l’arcipelago pontino mostra con orgoglio le sue apriche isole. Una, in particolare, colpisce la mia attenzione: l’isola di Ventotene con il vicino isolotto di S. Stefano su cui troneggia, nel suo altero silenzio, il carcere dove vennero imprigionati i Padri Fondatori dell’Europa e dove fu stilato il famoso “Manifesto di Ventotene” nel 1941. Quanto dolore risuona tra le sue vetuste mura! Mi sembra di veder passeggiare Giulia, figlia dell’imperatore Ottaviano Augusto, che fu esiliata sull’isola di Ventotene in seguito ad un’accusa di adulterio. La immagino girovagare per quei paraggi e fare il bagno nella vasca che da lei prende il nome.

Oggi che la guerra ucraina ha lacera- to il cuore stesso dell’Europa, sembra quasi incredibile che i tanti sogni nel cassetto, che amavo coltivare in passato, si siano frantumati riducendosi ad uno: “Tentare di perseguire con tutte le mie forze le vie della pace”.

Ed eccomi qua a coltivare questo sogno che affonda le sue radici in tanti anni di lavoro umanitario, già presente in embrione durante la mia infanzia quando amavo ascoltare i racconti di mia madre tra i lunghi silenzi di mio padre che della sua prigionia non ama- va parlare.

Oggi, nominata Ambasciatrice di Pace da parte di diverse associazioni umanitarie sparse per il mondo, mi ritrovo a pensare all’unico intramontabile sogno nel cassetto: la Pace.

Franca Colozzo Architetto – Membro UIA – Union of International Archotros

Quel cassetto, nelle mie stanze

C’è un cassetto, nelle mie stanze, che a volte apro, altre faccio finta di non vedere. Contiene un sogno.

È lì, da anni. Non ricordo di preciso quando ho deciso di custodirlo.

So per certo, tuttavia, che presto metterà le ali e avrà la forma del mio desiderio.

Non appena sarò pronta, non appena avrò acquisito tutte le competenze necessarie, non appena avrò consolidato il mio nuovo linguaggio, quel sogno profumato, dal cassetto, evaporerà.

Perché tutti i miei movimenti, ora, vanno in un’unica direzione, incontro al momento in cui avrò abbracciato la consapevolezza di potermi definire, finalmente, un’artista.

Ecco, l’arte, con le sue molteplici espressioni, è lei il sogno che, per anni, ho nutrito nel suo cassetto.

Talmente forte, così totalizzante, da riuscire a non trasformarsi in rimpianto.

Michela Santoro Artista

Un sogno oltre il cassetto

Chi non ha un sogno nel cassetto? È un po’ la visione di un domani migliore, di un tempo che attende sicuramente più buono del presente. È come assegnare all’attesa un risvolto salvifico. Io ho sognato la scrittura, l’idea di comunicare attraverso le parole. È stata un po’ la risposta a un presente ricco di numeri ma avaro di sentimenti. Il mio sogno non è stato mai immobile. L’ho accarezzato, cullato, l’ho modellato nei mesi e negli anni vissuti, abbracciando le mie passioni. Il mio sogno è fatto di romanzi, di eventi in giro per l’Italia, di incontri con autori, di libri letti e recensiti, di testi di canzoni. A volte è apparso inaspettato; un delizioso imprevisto. Il mio sogno è la mia vita vissuta ogni giorno con lo sguardo rivolto al cielo, aperto verso l’infinito. Il sogno non ha confini, non si ferma, non si imbriglia. Il sogno vola, ha forza, ha muscoli vigorosi che lo sorreggono. Per me non sarà mai qualcosa d’impossibile. Ciò che non potrà essere, non mi appartiene. Sogno con i piedi per terra. Lo penso come un compagno di viaggio. È lì a portata di mano e allora non devo far altro che avere il coraggio e la forza di toccarlo e sognarlo. Il sogno lo vivi solo se, a monte, hai avuto la forza e l’audacia di sognarlo. È così che il sogno sfocia nella felicità, nella gioia di vivere l’dea che gemmiamo.

Fuori dal cassetto, il sogno è vita! Ad esempio, si chiama Aya che, in arabo, significa “Miracolo”. Nasce sotto le macerie del terremoto, in Siria. Sua madre muore nel darla alla luce. Muoiono anche il papà e i suoi quattro fratellini. Lei in- vece è viva, tra le macerie di Jindayris. È ancora attaccata al cordone ombelicale quando la trovano. Il battito è flebile ma c’è. Viene portata in ospedale in pessime condizioni ma respira. Credo sia la massima espressione del “Sogno”…

una forza di vivere così prepotente da sbugiardare persino la morte che incombe.
Provo a fare un volo in un immaginario flusso di coscienza che appartiene alla piccola Aya. Un monologo interiore di inaspettata fantasia… C’è un cupo boato. Devasta il dolce cullare. È stata una rassicurante navigazione. Nove mesi nel “mare interno”. Avvolta e protetta nel buio sicuro. Sentire ogni giorno i pensieri, i battiti di chi apre alla vita. Poi tutto cambia. Tremori, vibrazioni, rumori, fracassi. Intorno si spacca, si spezza, barcolla e crolla. Non vedo ma sento. Odore di paura, morte… distruzione. Il cordone protegge. Mi lega, mi tiene, mi sfama, mi ossi- gena. Non è più il tuo buio sicuro. Ora è buio di morte. A terra sotto il peso dei crolli. Cadi. Cado con te. Hai paura. Ho paura. Tremo all’i- dea del mondo fuori. Non è come lo pensavo. Tienimi con te. Non lasciarmi. Sarebbe terribile. Urlo. Ti chiamo. Ti prego; rispondi. Le acque si rompono. Ti sento pulsare. Una strada davanti. Tienimi con te. Non ho forza per restare. Mi catapulti nel mondo. Ora piango con forza e respiro alla vita tra polveri e macerie. Non ti sento ma sono fortemente legata. Questa corda mi protegge dal destino. Il tempo passa. Il silenzio. Mi hai dato forza per vivere in una disperata solitudine. Intorno solo sirene, parole, soccorsi. Qualcuno mi trova. Piange. Mi abbraccia. Recide la parte di te. Io tristemente viva. Tu morta. Gridano al miracolo. Un sogno crudele che è vita. È una luce amara ma è luce donata dal tuo amore…

L’amore vince la morte. E questo è sognare…oltre il cassetto…

Stefano Carnicelli Scrittore

L’Italia non è un paese per giovani

di Luigina Pileggi


L’Italia non è un paese per giovani. A fotografare la situazione dei giovani italiani è l’Istat che come ogni anno raccoglie dati e produce statistiche su tutti gli aspetti che riguardano la vita dei giovani: dall’istru- zione al mondo del lavoro alla condizione socio-eco- nomica. Giovani che, a malincuore, scappano sem pre più all’estero, dove è più facile trovare lavoro. Le previsioni sul futuro demografico del Paese, ag- giornate al 2021, confermano infatti un potenziale quadro di crisi. Secondo l’Istat infatti la popolazione residente è in decrescita: da 59,2 milioni al primo gennaio 2021 a 57,9 milioni nel 2030, a 54,2 milioni nel 2050 fino a 47,7 milioni nel 2070. Il rapporto tra individui in età lavorativa (15-64 anni) e non (0-14 e 65 anni e più) passerà da circa tre a due nel 2021, a circa uno a uno nel 2050. Entro dieci anni, in quattro Comuni su cinque è atteso un calo di popolazione, in nove su 10 nel caso di Comuni di zone rurali. Anche per quanto riguarda le famiglie la situazione non è delle migliori: entro il 2041 una famiglia su quattro sarà composta da una coppia con figli, più di una su cinque non ne avrà.

Fuga all’estero

Gli italiani, soprattutto i giovani, dopo gli anni legati alla pandemia hanno ripreso a muoversi. In particolare, nel 2021 sono rimpatriati 75mila italiani, un numero più alto del 10% rispetto al periodo pre-pandemia. E sono rientra- ti soprattutto dal Regno Unito (anche per l’effetto della Brexit) e dalla Germania. In più della metà dei casi si tratta di uomini (56%). Per contro, 94mila giovani hanno invece lasciato l’Italia per trasferirsi all’estero. Tre su quattro sono italiani nati in Italia, uno su quattro è un italiano nato all’e- stero. Oltre la metà parte dalle regioni del Nord (Nord-ovest 30,6% e Nord-est 22,5%), mentre l’età media è 33 anni per gli uomini e 30 per le donne. Anche nel caso degli espatri prevale la componente maschile, ma questo non vale per i più giovani: fino ai 25 anni non si rilevano infatti differenze di genere. I Paesi più gettonati sono quelli europei, solo il 4% sceglie gli Usa e il 2% l’Australia.

I giovani fra i 25 e i 34 anni espatriati fra 2012 e 2021 sono circa 337mila, di cui oltre 120mila laureati. I coeta- nei rimpatriati nello stesso periodo sono 94mila, di cui 41mila laureati. Questo significa che in 10 anni l’Italia ha perso 79mila giovani laureati. Una dinamica che comunque cambia da re- gione a regione: nell’ultimo decennio infatti il Nord ha azzerato le perdite e, anzi, ha un saldo positivo di giovani laureati poiché ha accolto quelli che si sono spostati dalle regioni del Mezzo- giorno; allo stesso modo il Centro ha pressoché azzerato le perdite, mentre il Mezzogiorno, fra chi è andato all’e- stero e chi si è mosso verso le regioni

del Centro-Nord, ha subito una perdita netta di circa 157mila giovani laureati. Guardando i dati del 2022, si evince come il tasso di occupazione in Italia, considerando l’età compresa tra i 25 e i 34 anni, si attesta al 67,2%, in calo rispetto al 2004 anno in cui la percen- tuale era del 70%.

Indietro sull’Istruzione

Nel campo dell’istruzione l’Italia re- sta indietro rispetto agli altri Paesi eu- ropei. Un gap molto ampio se si con- sidera che l’Italia è penultimo posto in Europa relativamente al possesso di un titolo di studio terziario (diploma di tecnico superiore, diploma acca- demico, laurea o dottorato di ricerca) riferito ai giovani di età compresa tra i25ei34anni.InItalia,nel2021,i 30-34enni in possesso di un titolo di studio terziario sono il 26,8%, una percentuale nettamente inferiore alla media europea che raggiunge il 41,6%. L’obiettivo europeo è raggiungere il 45% entro il 2030 nella classe 25-34 anni, come definito nella risoluzione del Consiglio sul “Quadro strategico per la cooperazione europea nel setto- re dell’istruzione e della formazione”. In questa situazione, ad essere partico- larmente svantaggiato è il Mezzogior- no, dove si è laureato un giovane su cinque (20,7%), contro tre giovani su dieci nel Centro e nel Nord (30%). Il divario con l’Europa è più marcato per gli uomini rispetto alle donne: in Italia possiede un titolo terziario il 20,4%, dei giovani (contro una media Ue del 36,3%) e il 33,3% delle giovani, a fronte di una media europea del 47%. Un gap che appare difficile da colmare e che affonda le radici in tante ragioni, a cominciare dalla disponibilità limi- tata di corsi terziari di ciclo breve pro- fessionalizzanti, erogati dagli Istituti

Tecnici Superiori, che sono invece molto diffusi in molti Paesi europei. Anche il contesto familiare è un altro fat- tore associato al conseguimento di un titolo di studio ed è determinante per il raggiungimento di più elevati livelli di istruzione. Nelle famiglie con almeno un genitore diploma- to, infatti, la quota di figli 30-34enni in possesso di un titolo terziario si ferma al 39,3%, mentre sale al 70,1% quando almeno un genitore è laureato. Eppure l’istruzione premia: il tasso di occupazione dei giovani laureati di 30-34 anni supera di oltre 12 punti quello dei coetanei diplomati.

Consiglio nazionale dei giovani

Una condizione di disagio, quella vissuta dai giovani in Italia, che è emersa anche dall’ultimo rapporto realizzato dal Consiglio nazionale dei giovani (CNG) nel 2022 sulla “Disuguaglianza intergenerazionale e accesso alle opportunità”. Per il 79% dei giovani intervistati infatti in Italia si vive peggio rispetto al resto d’Europa. L’indagine ha ana- lizzato le condizioni di vita delle nuove generazioni e la loro capacità di accedere all’istruzione, al mondo del la- voro e alla politica attraverso la partecipazione ai processi decisionali. Per quanto riguarda l’istruzione, e in particolare il giudizio sull’orientamento scolastico da cui dipende il percorso formativo e lavorativo dello studente, dall’analisi si rilevano diverse criticità: il 75% degli intervistati, infatti, si dichiara insoddisfatto dell’orientamento in uscita dalle scuole superiori. Una forte insofferenza emerge an- che nei confronti delle condizioni del mercato del lavoro: poco più della metà degli under 35 (51%) ritiene che gli stipendi non siano affatto soddisfacenti e il 75% degli intervistati si dichiara poco o per niente soddisfatto ri- guardo all’allineamento del lavoro rispetto alle proprie competenze. La quasi totalità dei giovani (89%) definisce poi problematica la situazione relativa alle opportunità di lavoro in Italia rispetto all’estero. Per quanto riguarda infine la politica, la quasi totalità dei giovani (89%) de- finisce inadeguata l’offerta politica rivolta dai partiti alle nuove generazioni e l’86% sostiene di non essere soddisfatto delle opportunità di crescita all’interno dei partiti. Insomma, la situazione non è certo facile, per questo bi- sognerebbe ripensare le politiche pubbliche generazionali, magari sfruttando al meglio le opportunità offerte, come quelle introdotte da Next Generation Eu, devono innescare un reale e concreto cambiamento.

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Che fatica resistere alle seduzioni del web

Intervista a Maurizio Fiasco Sociologo di Francesca Pompa

In un mondo superpopolato di attrattive, impossibile resistere alle tante seduzioni del web. Nella povertà di guide di riferimento e di ambienti accoglienti. C’è una disaffezione alle pratiche sportive che è molto preoccupante, i pediatri denunciano l’aumento dei casi di obesità, di ipertensione arteriosa dell’età evolutiva. L’adolescente è in quella fase delicata dello sviluppo in cui non si è più bambini e non si è ancora adulti. È età dell’incertezza.Quello che manca nella società italiana è proprio un’esperienza pedagogica di massa trasmissibile, che agisce anche come fattore di collegamento tra generazioni

Quando noi adulti pensiamo ai videogiochi in mente abbiamo le Play-station, le tante versioni di Harry Potter, di film d’avventura, giochi di simulazione e di abilità, con un impianto narrativo, con una storia in cui il giocatore, bambino, adolescente, ma anche adulto doveva superare livelli successivi per arrivare alla conclusione. Livelli legati a funzioni manuale, mentale e strategica del giocatore.

Questa stagione praticamente si è conclusa. Gli attuali videogiochi, entriamo nel gaming, non hanno un inizio e una fine dell’esperienza, lasciano ai giocatori, al ragazzo, al bambino e persino all’adulto un senso di incompiutezza e da qui si crea la dipendenza. Per proseguire di livello bisogna immettere dei soldi, ricaricare o acquistare strumenti di gioco, anche se puramente virtuali cioè digitali. La gratificazione è nella scoperta di quello che trovo. Esattamente come quando compro un biglietto “gratta e vinci” o faccio una scommessa o punto dei soldi in una slot machine, la gratificazione deriva dall’incertezza, dal caso.

Può essere un gioco di combattimento, di simulazione di partite di calcio, di tennis o altro ancora, o un gioco di avventura. La convergenza sta nel fatto che la simulazione ludica viene combinata con l’attesa di una ricompensa erogata dal caso. Quindi è una gratificazione da esito incerto, ripetuta ad alta frequenza, per un tempo molto lungo, ore e ore della giornata, al chiuso e in isolamento, molto simile al gioco d’azzardo.

Chiediamo a Maurizio Fiasco, sociologo, componente dell’osservatorio sul gioco d’azzardo presso il Ministero della Salute, quali le conseguenze di queste pratiche sui giovani in età evolutiva.

“La riduzione della fisicità aumenta la sedentarietà dell’età evolutiva riducendo il rapporto con lo spazio della città, l’interazione faccia a faccia con i coetanei. C’è una disaffezione alle pratiche sportive che è molto preoccupante, i pediatri denunciano l’aumento dei casi di obesità, di ipertensione arteriosa dell’età evolutiva. C’è anche un rapporto dell’Istat che mostra un dato paradossale: in palestra, a seguire le pratiche sportive sono sempre più gli adulti, gli anziani, con una caduta di parecchi punti percentuali da parte dei giovanissimi”.

Quanto ha inciso il biennio della pandemia nel determinare questo andamento così allarmante e quali misure per contrastarlo?

“C’è stata un’indigestione di videogiochi a compensazione di una fisicità che non si poteva esprimere. Quando sono venute meno le ragioni del confinamento, la situazione quo ante non si

è ripristinata ma piuttosto prolungata. Il distanziamento tra i luoghi della vita e i luoghi di accesso al mantenimento della dipendenza è praticamente im- possibile.

Necessitano misure di prevenzione, di distanziamento degli accessi ai giochi dai luoghi della quotidianità, è una misura fondamentale come avvenne vent’anni fa con il decreto Sirchia per il tabacco, interrompendo l’esposizio- ne costante al fumo.

È possibile penetrare le tante
facce del video gaming, nelle sue forme di manipolazione quando è sostenuto da un progetto industriale, da un’architettura tecnologica del business?

“La progettazione industriale si è fatta molto intrusiva, molto raffinata. Propone modelli ed esperienze che ingaggiano e coinvolgono i ragazzi. Si inserisce nei vuoti esistenti e destabilizza l’intero sistema educativo.

Il gioco è fatto di testa e corpo, di interazione con gli altri, è fondamentale nell’evoluzione della personalità per il benessere e anche come antidoto alla dipendenza da forme di patologia. Bisogna entrare in rapporto col mondo dell’età evolutiva. Gli adolescenti non riescono ad avere una mappa del- le loro rappresentazioni simboliche, non riescono a ricostruire come avviene la loro esperienza sociale, interpersonale, affettiva, del loro rapporto con la città”.

La sofferenza del mondo giovanile
è attribuibile anche dalla caduta di competenza del sistema degli adulti?

“Di fatto bisogna dire che c’è una crisi

“generazionale” di adulti che faticano ad entrare nei loro orizzonti simbolici, pochi riescono a trovare la chiave capace di aprire i cuori e di intercettare i loro bisogni, certo ci sono insegnanti e genitori illuminati, allenatori, coach. Pochi quelli che riescono a valorizzare lo sforzo che la ragazza o il ragazzo fa per sperimentarsi, per mettersi alla prova. È necessario porre il risultato come applicazione, come autodisciplina, come scoperta delle proprie risorse, delle proprie capacità e abi- lità e quindi come uso appropriato di ciò che Madre Natura ha dispensato. L’adolescente è in quella fase delicata dello sviluppo in cui non si è più bambini e non si è ancora adulti. È età dell’incertezza”.

La famiglia resta sempre un cardine centrale nell’accompagnamento
dei giovani alla crescita, bisogna ripensare anche il ruolo genitoriale rispetto ai tempi che stiamo attraversando?

“Non c’è l’apprendimento, attraverso quali canali noi apprendiamo ad essere adeguati al ruolo di genitore? Il modello tradizionale era una lenta evoluzione che avveniva nelle varie stagioni della vita, esperienze che si facevano collettivamente o anche solo nel contesto familiare. Adesso non c’è più un’autonomia simbolica del- la famiglia, riceve dall’esterno l’apprezzamento o la disapprovazione su comportamenti adeguati o inadeguati. Quello che manca nella società italiana è proprio un’esperienza pedagogica di massa trasmissibile, che agisce anche come fattore di collegamento tra generazioni”.

Torniamo alla penuria di adulti dotati di sufficiente competenza nel comprendere la condizione attuale dell’età evolutiva e quindi nel comportarsi in modo proattivo per favorire questa transizione.

“Nel gran parlare di allarme sui comportamenti dei giovani ci si dimentica che loro hanno anche un grande bisogno di sicurezza. La stessa città, che nell’arco della giornata oggi attraversa fasi di affollamento e di desertificazione, appare a loro insicura se devono concentrarsi in certi luoghi dove nasce la polemica sulla movida. Avvertono che nel resto della città non solo vengono respinti ma patiscono una condizione di insicurezza. La città che subisce un metabolismo continuo, disordinato, con luoghi che non sono riconoscibili, che non trasmettono un messaggio di accoglienza. È avvenuta una espropriazione di funzioni urbane importanti dai quartieri residenziali. Ricordo le mie esperienze di socializzazione le ho fatte nel quartiere dove vivevo. C’era la mia casa, la chiesa, l’oratorio, i giardini, la scuola, c’era- no i negozi ed era tutto un pieno e di conseguenza i rapporti con i coetanei avvenivano lì e io mi sentivo sicuro. Attraverso il riconoscimento che il vicinato urbano confermava ai propri genitori, si creava un filone educativo di apprendimento nei bambini, nei ragazzi in età evolutiva. Il constatare che il proprio genitore aveva un ruolo sociale in un ambiente ricco di vicinato dava al genitore stesso quella autorevolezza e quella competenza pedagogica che funzionava”.

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COMPITO DELL’ITALIA Riconquistare la fiducia delle nuove generazioni

Intervista a Maria Cristina Rosaria Pisani Presidente Consiglio Nazionale Giovani

Maria Cristina Rosaria Pisani è nata a Napoli ma è cresciuta in Basi- licata. Ha studiato Giurisprudenza. Dal 2016 è la prima donna eletta Portavoce del Forum Nazionale dei Giovani.
Dal 2016 è vicepresidente dell’Association Femmes Europe Meridiona- le (Afem), la federazione europea che raggruppa piattaforme di as- sociazioni dei paesi meridionali dell’Unione europea. Ha lavorato a progetti europei e internazionali su donne e giovani. Il 29 settembre 2019 è stata eletta Presidente del Consiglio Nazionale dei Giovani.

Qual è la condizione dei giovani nel nostro Paese?
Quali sono le difficoltà maggiori che devono ad affrontare?

I giovani, in questo Paese, hanno subito il colpo più duro della pandemia, soprattutto in riferimento allo stato di benessere psicofisico.

I giovani, in questo Paese, hanno subito il colpo più duro della pandemia, soprattutto in riferimento allo stato di benessere psicofisico. In questo anno abbiamo condotto ricerche, sia con partner esterni come Censis, sia con il nostro Osservatorio sul Benessere, e i dati sono davvero preoccupanti. Dal- le condizioni di salute, caratterizzate da persistenti sensazioni di ansia e nervosismo, passando per le difficoltà nel farsi spazio nella società e nel mondo del lavoro. È un Paese questo che ha visto bloccarsi l’ascensore sociale e non offre prospettive di

miglioramento. Solo il 3,7% dei comuni italiani ha un sindaco con meno di 35 anni, e tra questi non c’è nessun comune capoluogo. I deputati giovani sono 21, pari al 5% del totale, ancora meno di quelli presenti nella scorsa legislatura. Come possono, dunque, i decisori politici rappresentare a pieno le esigenze dei più giovani? Eppure questa è la generazione più preparata e scolarizzata di sempre, ma fa fatica a trovare un’occupazione e, anche quando la trova, il guadagno non è quasi mai proporzionato allo sforzo; oppure si è sotto inquadrati, stressa- ti per carichi di lavoro eccessivi, e si fa fatica ad ottenere quel necessario riconoscimento che serve a motivare per l’impegno futuro.

Molti scelgono di abbandonare l’Italia e di cercare un futuro altrove. Cosa trovano all’estero che qui non c’è?

I giovani vanno via da un Paese che li ha delusi, ed è questa mancanza di fiducia nel futuro e nelle istituzioni che mi spaventa molto

In questi anni c’è stato un progressivo disinvestimento sulle leve tradizio- nali della crescita socio-economica, che sono tre: istruzione, formazione e lavoro. Questo è il motivo per cui ben 9 giovani su 10 ritengono che meriterebbero di più nel lavoro, e 4 giovani su 10, se avessero la possi- bilità, andrebbero via dall’Italia. Il triplice rifiuto percepito dai giovani italiani (anagrafico, territoriale e di genere) ha incentivato il desiderio di migrare all’estero e soprattutto lo ha fatto diventare realtà. Non ho paura di dire che quella di andare via, oggi, più che una scelta, è una necessità di sopravvivenza

I fattori sono tanti ma passano tutti per la dimensione della dignità formativa, professionale ed economica. Probabilmente i Paesi esteri riescono a garantire un equilibrio migliore tra riconoscimento delle competenze e del merito, livelli salariali, qualità e costo della vita. Oggi per un giova- ne senza sostegni familiari è difficile conquistare l’autonomia e l’emanci- pazione, soprattutto in città dove gli affitti sono quasi più elevati dei salari percepiti. I giovani vanno via da un Paese che li ha delusi, ed è questa mancanza di fiducia nel futuro e nelle istituzioni che mi spaventa molto. Credo che le istituzioni debbano la- vorare affinché andare via sia una libera scelta e, soprattutto, che tornare in Italia sia un desiderio acceso. Per fare questo però c’è la necessità di costruire ambienti fertili agli investimenti, a partire da infrastrutture fisiche e digitali che rendano agevole vivere e lavorare. Insomma le opportunità e le ricchezze vanno ridistribuite meglio su tutto il territorio nazionale, da nord a sud, dai centri alle periferie, in maniera più omogenea. Il Pnrr in questo è un’enorme opportunità che non va sprecata.

Crede che le nuove generazioni sappiano fare rete?
Siano disposte a lottare per migliorare la situazione e le prospettive future o prevale un
sentimento di sfiducia e un nuovo riflusso nel privato?

Sono Presidente della più grande rete di associazioni giovanili d’Italia e sono testimone dell’impegno quotidiano che migliaia di giovani offro- no gratuitamente per il loro Paese. I giovani sono bravissimi a fare rete e lo hanno dimostrato in tante recenti occasioni, con atteggiamenti responsabili e generosi.

Tuttavia, parliamo di una parte dei giovani italiani. Non è una condizione generalizzata. Da alcuni studi è emerso che l’81% dei presidi delle scuole secondarie ritiene che tra gli studenti siano sem- pre più diffuse forme di depressione e di disagi esistenziali, rese più gravi dalla pandemia. Sono fenomeni che erano già presenti nel nostro tessuto sociale, ma che sono stati accentuati dalla solitudine e dall’assenza di relazionalità vissuta durante l’emergenza sanitaria. Questa condizione, diffusa e persistente, che tutto sommato si trascina dalla crisi del 2008, ha portato i giovani italiani a maturare la pericolosa convinzione che rinunce, sforzi e investimenti individuali non generino un adeguato ritorno in termini di soddisfazione lavorativa, personale e di retribuzione. Anche i dati di Bankitalia confermano che dal 2006 al 2016 c’è stata una riduzione della ricchezza degli under 35 di ben sette volte. È un dato impressionante, che non può che generare senso di sfiducia e conseguente abbandono.

È davvero una generazione che ha perso la speranza?

Credo che il problema principale sia questo. Perciò mi piace parlare di diritto alla Felicità, perché se smettiamo di sperare, di sognare, di credere, nessun sogno potrà diventare realtà. In questo, il contributo dei social network e della narrazione giornalistica non ha aiutato. Le storie straordinarie raccontate come ordinarie creano una pericolosa distopia tra reale e percepito, che genera sofferenza.

Ma cosa c’è dopo questa sofferenza? Una reazione in positivo? Una voglia di riscatto? Ci sarebbe se offrissimo a questi ragazzi la prospettiva di una riuscita, ma se nel frattempo li la- sciamo navigare in un mare di noti-

zie negative, la conseguenza sarà la paralisi generale. Quella che genera procrastinazione. Per questo – nonostante tutto – noi vogliamo invertire questa narrazione e affrontare il futuro, sfidandolo a viso aperto, con il sorriso. Con ottimismo? Sì. Perché se non lo siamo noi, non lo sarà nessuno e perché il nostro futuro cammina solo sulle nostre gambe.

Quali potrebbero essere le cose da fare nell’immediato per ridare fiducia ai giovani?
Quali responsabilità affidare
alla politica?

I giovani sono bravissimi a fare rete e lo hanno dimostrato in tante recenti occasioni, con atteggiamenti responsabili e generosi.

Mi piace parlare di diritto alla Felicità, perché se smettiamo di sperare, di sognare, di credere, nessun sogno potrà diventare realtà

La politica ha l’enorme responsabilità di riconquistare la fiducia tra i giovani. E potrà farlo solo costruendo un Paese che possa essere casa ospitale per chi vuole impegnarsi, destinando adeguate risorse alle politiche generazionali e a quelle potenzialmente generazionali. Per fare questo però c’è bisogno di codificare un dialogo costante, in un perimetro fisso e stabile, dove la funzione consultiva dei giovani venga solidamente presa in considerazione. Solo con la raccolta di questi input si può generare output che risultino adeguati alle esigenze. Gli investimenti sulla formazione, sull’orientamento, e sulla costruzione di ambienti favorevoli all’occupazione sono i presupposti, per poter ricostruire un patto generazionale, sul quale vogliamo rilanciare il Paese. Il reset generale che abbiamo dovuto subire, a caro prezzo in questi anni, può diventare un’enorme opportunità, per ricostruire schemi sulla base di nuovi modelli di partecipazione. Ci stiamo impegnando per questo, e ne scorgiamo già i primi risultati. La strada è ancora lunga, ma il tempo è dalla nostra parte.

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Tornare ad essere Comunità Educanti

adulti più consapevoli, giovani meno fragili

Intervista di Francesca Pompaa Elena Littamè Psicologa – Direttrice Generale di Fondazione IREA Morini

Generazione Z, così vengono identificati i nati tra il 1997 e 2012; figli della Generazione X (1965 – 1980) e dell’ancor prima Baby Bummer (1946 – 1964). È la prima generazione ad essersi sviluppata godendo dell’accesso ad Internet sin dall’infanzia: i cosiddetti “nativi digitali”*.

Una generazione controversa per es- sere rappresentata da un lato come quella meno violenta, più tollerante ed inclusiva degli ultimi anni, e dall’altra come una generazione con forte propensione all’individualismo, concentrata a fare più che ad essere, incline al successo personale piuttosto che alle relazioni sociali, familiari, oppure agli hobby.

La Generazione Z offre un quadro del tutto nuovo del mondo dei giovani con una visione etica per certi versi più vicina a quella delle generazioni passate.

Onestà, affidabilità, impegno, sono valori fondanti di questa generazione; come mai invece la cronaca spesso ci riporta episodi di altra narrazione?

«Da psicologa, mamma di una adolescente Gaia di nome e di fatto, responsabile di un progetto che tra il 2019 e il 2022 ha coinvolto più di 600 alunni della scuola secondaria di primo grado del territorio in cui vivo e lavoro e circa 300 adulti di riferimento (genitori, insegnanti, educatori, allenatori..) mi chiedo spesso perché questa nuova Generazione Z occupi sempre più spesso la cronaca con episodi plateali, ad esempio di bullismo nei confronti di coetanei ed adulti, ripresi e postati come “trofei”, talvolta minimizzati, quasi giustificati da genitori che non vogliono vedere la gravità dell’accaduto».

Episodi che nascono forse dal bisogno di “essere visti”, e qui entriamo nell’uso che i giovani fanno del web come strumento di relazione.

«Quanti follower hai? Nell’era dei social network e dei social media sembra che il successo di una persona, di un progetto, di un prodotto o di un’idea dipenda unicamente dal numero di follower e di like che riescono a collezionare: “se non posti non sei/non fai”.

Anche Amadeus al Sanremo di quest’anno si è fatto convince- re dalla top influencer Ferragni ad aprire un nuovo profilo su Instagram e ha coinvolto il pubblico del Festival nella conta dei nuovi amici virtuali che il conduttore ha avviato nelle sera- te più chiacchierate dei nostri palinsesti televisivi italiani.

Del resto, se qualcuno ti followa, vuol dire che ti segue e se ti segue vuol dire che “ti vede”!»

La maggior parte della Generazione Z accusa quelle precedenti di non aver preservato ma lasciato un mondo
in cui vivere è diventato difficile, come se avvertisse la necessità di salvarsi da sola, tagliando col passato e creando nuovi paradigmi, nuovi linguaggi. Intercettare i loro pensieri non è semplice.

«Ma non impossibile. “Io ti vedo” desiderano sentirsi dire. Essere visti e riconosciuti infondo non è il bisogno che tutti noi abbiamo? Se l’essere visti passa solamente attraverso quell’appendice che ormai ciascuno di noi maneggia continua- mente durante il giorno, il nostro telefono, le app e i social, essa diventa il principale strumento per raggiungere l’obiettivo. Ma se ci fossero anche altri modi? La prima volta che ho visto Avatar (il film di James Cameron) ricordo quanto mi abbia colpito quell’“io ti vedo” con cui i protagonisti si salutano. “I see you” – io ti vedo – “It’s not just ’I’m seeing you in front of me’; it’s: ‘I see into you, I accepted you, I understand you’” – “Non è ‘ti vedo di fronte a me’; è ‘io vedo dentro di te, ti accetto, ti capisco’”. Un nuovo modo di vedere “l’altro” e di connettersi con lui».

Diventa urgente cercare soluzioni inserendo elementi che possano ingaggiare gli adulti e i giovani, sarebbe un ottimo modo per far incontrare passato e presente.

«Se come adulti fossimo più capaci, nella complessità delle nostre quotidianità, di “vedere” i nostri figli e i figli delle comunità in cui viviamo – questi avrebbero meno bisogno di gesti plateali per richiamare la nostra attenzione e quella dei loro coetanei (che, ahimè, a loro volta non vedono e non li vedono!). Forse la comunità educante inizia da qui. Da un “Io ti vedo” che non sia di corsa, che non sia superficiale, che non sia scontato… Gli adolescenti di oggi sono sempre di più supereroi fragili, all’apparenza forti e invincibili, nella realtà nascondono insicurezze e vulnerabilità».

Una Comunità Educante più consapevole, fatta di adulti, genitori, educatori, insegnanti, allenatori, guide capaci di invertire la rotta…

«Bisogna essere consapevoli che si nasce figli ma che genitori si diventa giorno dopo giorno, insieme ai nostri figli che crescono, at- traverso le piccole conquiste quotidiane e l’alleanza educativa che riusciamo a creare di accompagnamento alla crescita, che significa dare amore (“Io ti vedo”), sicurezza (fondamentale!), ruoli distinti (io sono l’adulto) e confini precisi (i “no” aiutano a crescere). Non esistono genitori perfetti e non è questo a cui dobbiamo aspi- rare. Serve piuttosto essere una mamma (un papà, un genitore) sufficientemente buona, spontanea, autentica, come ci insegna il famoso psicanalista inglese Donald Winnicot. Con le proprie ansie e preoccupazioni, stanchezze e sensi di colpa, cercando di trasmet- tere sicurezza e amore.

Così come si diventa insegnanti ed educatori nelle sfide quoti- diane, condividendo con bambini e giovani un percorso dove si apprendono conoscenze (il sapere), competenze (saper fare), soft skill (saper essere) e la necessità di continuare ad imparare (saper diventare). Occorre una forte alleanza educativa tra scuola, famiglia e Comunità Educante, per invertire la rotta: lavorare insieme per avere meno “supereroi” ma rendere questi figli, questi alunni, questi ragazzi, meno fragili».

Quale può essere la chiave di volta per “sopravvivere” più serenamente in questo periodo storico così complesso?

«Essere visti e viste, essere riconosciuti come persone, per quello che siamo e non per le caratteristiche che abbiamo. Essere consapevoli che ciò che siamo ci unisce e ciò che abbiamo (storie, provenienze, caratteristiche, desideri, culture, posizioni sociali) ci rende diversi e unici.

Essere e Avere sono due parole che mi sono particolarmente care. Nella mia quotidianità di direttrice di una Fondazione che da cento anni si oc- cupa di educazione e da cinquanta ha come cuore pulsante progetti e ser- vizi per persone con disabilità, diamo molta importanza al linguaggio che utilizziamo. Chiedo di non usare più il termine “disabili” e di sostituirlo con “persone con disabilità” a cui prima riconosciamo il diritto di essere un bambino, una donna, un adulto, un anziano… con desideri, aspettative, bisogni che vengono prima della sua disabilità! Con questa consapevolezza potremmo diventare i primi follower di noi stessi, dei nostri figli e dei nostri ragazzi e valorizzare le relazioni come la nostra vera e più preziosa ricchezza».

La rete è diventata ormai la sede indiscussa del dibattito sociale, un approccio individualistico meno interessato alle vicende politiche, un nuovo agglomerato di pensiero, fuori dai luoghi del passato.

«Abbiamo passato gli ultimi anni, come generazione di adulti, a delegittimare le istituzioni (scuola, sanità, chiesa, forze dell’ordine…) e la politica. Non sarà forse il caso che riprendiamo a rispettarle e a dar valore a questi pilastri della nostra società perché possano essere punti fermi, certezze, riferimenti più credibili e importanti anche per le nuove generazioni?

I ragazzi che tanto denigriamo per gli atti di bullismo che leggiamo sui giornali sono gli stessi coetanei di Greta Thumberg che lottano per pre- servare l’ambiente, sono i cittadini del mondo che non si danno confini nelle amicizie e nei progetti, sostengono valori e etica che spesso superano ogni nostro “credo”. Forse hanno solo un po’ più bisogno di una Comunità Educante intorno a loro fatta di adulti più consapevoli del proprio ruolo, capaci di “educere”, di tirar fuori il loro vero “essere”. Proviamoci. Io ti vedo, io vi vedo!»

Le generazioni culturali

• Generazione perduta (1883-1900)
• Greatest Generation (1901-1927)
• Generazione silenziosa (1928-1945)
• Baby boomers o “Boomers” (1946-1964)
• Generazione X (1965-1980)
• Generazione Y o “Millennials” (1981-1996)
• Generazione Z o “Centennials”(1997-2012)
• Generazione Alpha o “Screenagers”(2013-oggi)

A fianco delle nuove leve. L’esperienza insegna

di Serenella Panaro

Il termine degli studi e la fase di passaggio dall’Università al lavoro rappresenta una
delle transizioni più delicate e importanti.Dallo status di “studentesse”, su cui ci si è identificate a lungo, fin dai primi giorni di scuola, si compieil primo vero salto verso l’identità di professioniste, sperando di non passare, se non per un tempo limitatissimo, a quella di inoccupate. Condizione che appare come un limbo spaesante.

Nell’esperienza svolta all’interno della nostra Associazione in questi anni, il Mentoring si sta rivelando uno strumento meraviglioso per le Mentee e anche per le Mentori. I modelli lavorativi e i patti lavoratore-azienda stanno profondamente mutando e i vecchi paradigmi non sembrano riuscire a intercettare bisogni profondi.

Il cammino verso l’affermazione di un’identità professionale caratterizzante è costellato da mille incertezze, ansie e difficoltà date sia dal mercato in continua evoluzione sia dalla mancanza di una strategia e pianificazione personale.

Esso sembra assumere la valenza di un vero e proprio rito di passaggio, un momento di iniziazione all’età adulta, di in- gresso nel mondo dei professionisti.
In queste fasi il ruolo di una guida, di uno sherpa, è fondamentale. Qualcuno che esuli dai già presenti processi di onboarding (anch’essi riti in chiave moderna), offerti all’entrata dalle aziende ai giovani talenti, che vada oltre lo sviluppo di competenze, e accompagni alla complessità della vita professionale a tutto tondo, come persone.

In tal senso acquistano immenso valore pratiche quali il coaching e il mentoring per supportare le prime fasi di carriera. Nell’esperienza svolta all’interno della nostra Associazione

in questi anni, il Mentoring si sta rivelando uno strumento meraviglioso per le Mentee e anche per le Mentori. Immenso valore ha la relazione che si nutre di una matrice socratica, e che alimenta le nostre Socie Men- tori, tanto quanto le più giovani. Ci si rivede, si riscoprono le radici di tante scelte effettuate, si riacquista slancio e desiderio, ci si appassiona nel dare e ricevere, reciprocamente. In tutte le fasi di transizione ci ritroviamo a lasciare qualcosa di noto, passando per una cosiddetta “zona neutra”, apparentemente confusa ma anche generatrice di profonda trasformazione, per poi entrare nel “nuovo”.

La transizione è infatti il processo del lasciare andare le cose per come sono state, e impadronirsi del modo in cui sono diventate. Passaggio non privo di resistenze.

Riguarda il “come” viviamo a livello personale il cambiamento .È un riorientarsi e ridefinirsi, attra- verso cui si incorpora il cambiamen-to nella propria vita e si mobilitano energie per la nuova realtà/situazio-ne. È un processo lento che richiede un Programma di Mentoring di molti mesi.

Il cambiamento può accadere in qualsiasi momento (da noi voluto o meno), mentre la Transizione arriva quando un capitolo della vita termina e un altro spinge per fare la sua entrata.

La nostra stessa vita è transizione, e lungo la vita viviamo diverse possibili transizioni personali e professionali; tutto questo accomuna la Mentore e la Mentee.

Le giovani generazioni – e la comunità professionale tutta dopo la pandemia – sembra essere sempre più alla ricerca di senso, di un allineamento di valori, dell’autorealizzazione sostenibile. Fenomeni come la Great Resignation, il Quiet Quitting, stanno mostrando che i modelli lavorativi e i patti lavoratore-azienda stanno profondamente mutando e i vecchi paradigmi non sembrano riu- scire a intercettare bisogni profondi. Bisogni che non crediamo siano essenzialmente della nuova generazione ma che sono rimasti latenti anche in quelle precedenti, semplicemente perché non apparivano possibili del- le alternative.

Il Mentoring diviene quindi uno strumento di ascolto e di intercettazione per chi si affaccia alla professione, ritenendolo oggi un’importante fon- te di motivazione.

È anche un modo per evolvere e costruire assieme nuovi modelli di professionalità e di paradigmi lavorati- vi, che tengano conto di una nuova gerarchia di bisogni, e offrano una risposta alla dirompente richiesta di senso che da più parti, oggi arriva come un segnale forte e chiaro.

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