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l lungo cammino delle donne “vittimizzate” due volte

VIOLENZA di Genere e Violazione dei diritti umani di Elvira Reale, psicologa, responsabile centro Dafne ospedale Cardarelli Napoli, consulente Commissione Femminicidio XVIII legislatura

Il Codice Rosa è un percorso sanitario attuato nei Pronto Soccorso a favore delle donne vittime di violenza mettendo in luce come questa abbia ripercussioni su ogni ambito della vita delle donne, compreso quello della salute.

L’allarme mondiale arriva dall’OMS che segnala come molte patologie, sia psichiche sia fisiche come le cardiovascolari, a larga diffusione nella popolazione femminile, hanno una frequente eziologia da violenza. Per questo nel mondo sanitario, quando si ha di fronte una donna che parla dei suoi malesseri, delle sue patologie, è opportuno individuare anche l’eventuale presenza di violenza nel contesto della sua vita in quanto essa, oltre a causare un danno alla salute, è anche un ostacolo al tema tanto dibattuto della parità uomo/donna. Lo dice la Convenzione di Istanbul che la violenza è radicata nel differenziale di potere uomo/donna, e che la violenza è uno strumento per mantenere le donne in dipendenza e sottoposizione agli uomini. Quindi la violenza è il nodo centrale di tutte le questioni legate alla parità, al potere e alla salute.

Il referto psicologico

Tornando al percorso/codice rosa in pronto soccorso, questo non deve limitarsi alla sola valutazione delle lesioni fisiche, ma an- che di quelle psichiche dovute alla così detta violenza invisibile, come si verifica da anni in Campania. Qui la Regione ha delibe- rato che, ad integrazione del referto medico avvenisse anche la stesura del referto psicologico finalizzato a valutare la lesione psichica oltre quella fisica della vittima.

Il referto psicologico, all’interno del percorso sanitario, è uno strumento di difesa delle donne, perché permette di vedere e far vede- re a terzi (compresi gli operatori della giustizia) i vari nodi psico- logici della relazione maltrattante, quei nodi sottili che vincolano la donna con ricatti, minacce, offese, ingiurie, squalificazioni, controllo, ecc. ecc. Il cuore della violenza psicologica contro le donne è il cd. “controllo coercitivo”, esso non è altro che la misura della limitazione della libertà femminile da parte del partner violento. Il controllo coercitivo fa la differenza tra la violenza maschile e quella femminile che è una violenza di coppia residuale rappresentata nelle statistiche internazionali da un 15% rispetto a quella maschile che occupa l’85%. Le donne possono fare anche loro violenza fisica e psicologica ai loro partner, come oramai gli uomini dicono pretendendo anche loro un ruolo di vittime, ma in effetti queste violenze sono minori e non accompagnate dal controllo coercitivo con la limitazione della libertà persona- le. Difficilmente un uomo ha paura di una donna, e difficilmente limita i suoi movimenti perché si sente minacciato e in pericolo, cosa che accade in- vece quotidianamente alle donne. Ecco allora che il referto psicologico ha la mission di rappresentare questa condizione di costrizione della donna nella relazione di coppia, al di là anche delle botte e delle aggressioni fisiche, più facili da identificare e refertare per un operatore sanitario. Il referto psicologico è quindi uno strumento che aiuta le donne a rappresentare la loro condizione di vittime presso i tribunali anche quando le loro ferite sono invisibili ad occhio nudo.

Vittimizzazione secondaria

Abbiamo anche altri nodi da sciogliere, per aiu- tare le donne a far emergere la loro condizione di vittime incolpevoli; nodi che sono stati messi in evidenza dall’inchiesta sulla “vittimizzazione se- condaria” promossa da Valeria Valente, presiden- te della Commissione femminicidio della XVIII legislatura.

Il tema della “vittimizzazione secondaria”, ov- vero dell’essere donne vittimizzate due volte, riguarda il rapporto con i tribunali – e in parti- colare quelli civili e per i minorenni – ai quali le donne si rivolgono, dopo aver denunciato i loro partner, per le questioni di affido dei figli. Il segno di questa vittimizzazione si misura con i dati della Commissione (nell’inchiesta parallela a quella sulla vittimizzazione secondaria, l’in- chiesta sul femminicidio) che ci hanno rivelato ad esempio che solo il 15% delle donne assassinate aveva denunciato il partner. Le molte altre avevano evidentemente avuto paura di farlo e in questa mancata denuncia si ravvisa non solo il timore della reazione del partner, ma anche la paura di perdere i figli a causa dei giudizi misogini che abitano i nostri tribunali e le altre istituzioni (l’80 % circa delle donne vittime di violenza ha figli minori, come emerge dai dati del centro ospedaliero Cardarelli di Napoli).

La paura delle donne di perdere i figli non è infondata. Scopriamo attraverso l’inchiesta sulla vitti- mizzazione secondaria che nel 34% dei percorsi giudiziali per l’affido di minori ci sono allegazioni di violenza (denunce, referti, testimonianze varie, ecc.) ma queste, nella quasi totalità dei casi, non vengono valutate e prese in considerazione. Così accade che si determinano le condizioni di un af- fido senza tenere conto della violenza, mettendo i due genitori sullo stesso piano e poi chiedendo alla donna, vittima di violenza, di superare tutto, di non essere conflittuale e di agevolare il rappor- to padre figlio, anche quando vi sia un bambino spaventato dalla violenza cui ha assistito e che ri- fiuta di incontrare il padre.

I tribunali dell’affido non tengono conto di quan- to l’art. 31 della Convenzione di Istanbul impone in tema dei diritti di protezione e sicurezza della coppia madre – bambino e dispongono, in contra- sto con esso, l’affido condiviso e il mantenimento della relazione con il partner violento nel ruolo di genitore indispensabile allo sviluppo del minore. L’affido condiviso poggia su un principio distorto, se inteso come principio assoluto e inderogabile, che è quello della bigenitorialità, principio spesso concepito erroneamente come superiore all’inte- resse del minore ad essere tutelato dalla violenza e dal genitore violento.

Il decifit della bigenitorialità

Se c’è violenza la bigenitorialità, che non è un diritto primario (e finalmente abbiamo le ultime Cassazioni, 9691/22;. 21425/22, che ne parlano come un diritto recessivo), deve fare un passo in- dietro e i tribunali devono garantire l’applicazione dell’art. 31 della Convenzione di Istanbul.

Nei casi speciali esaminati (36 casi oltre i casi ri- levati dal campione statistico) nell’inchiesta della Commissione, abbiamo individuato un percorso giudiziario che si ripeteva dal momento che veniva negata la presenza della violenza e dal momento che questa veniva declinata come semplice conflittualità equiparando le responsabilità tra i due partner. Questo percorso standard prevedeva un decreto provvisorio con l’affido condiviso e visite libere al padre e, nel caso di una supposta elevata conflittualità, un monitoraggio dei servizi. Queste decisioni provvisorie sull’affido condiviso in caso di allegazioni di violenza, si rivelavano essere una vera e propria polveriera, perché quei partner violenti dopo la separazione (in sintonia con le statistiche internazionali che ci dicono che le violenze nella fase post-separativa continuano nel 50% dei casi) continuavano a perseguitare le donne anche attraverso la gestione condivisa dei figli e attraverso gli stessi procedimenti giudiziari (stalking giudiziario). Cosi nella maggioranza dei casi esaminati, le violenze continuavano e i bambini non volevano vedere quel padre che era stato violento con la madre (maltrattamento assistito) e che era con loro anche autoritario e impositivo. Il percorso prosegue con le accuse dei padri di alienazione parentale: i padri attaccano le madri accusandole di condizionare i figli e di manipolar- li al fine di ottenere da loro il rifiuto agli incontri con il padre.

L’alienazione parentale

È un costrutto definito ascientifico ma che continua a sopravvivere nelle aule dei tribunali grazie ad una classe di psicologi forensi che è sua strenua paladina. Partendo dalla violenza negata, che giustificherebbe sia il comportamento della madre come protettivo e sia il rifiuto del figlio come difensivo, si afferma che il rifiuto del bambino verso il padre non è genuino ma indotto dal condizionamento materno: la madre da tutelante diviene ostacolante e quindi pericolosa perché sottrae al bambino il rapporto con il padre, considerato spesso, in maniera sovrastimata, il rapporto principale per il suo sviluppo, in grado finanche di veicolare un rischio psicopatologico (indimo- strato e non comprovato dalle autorità scientifiche). E su questo si va avanti, i giudici avallano le consulenze tecniche che parlano di inconscio e di condizionamento senza prove, senza fatti, negan- do gli unici fatti evidenti e cioè che quel bambino rifiuta il padre perché ne ha paura. Ma c’è ancora un punto di caduta più basso per tutto il sistema psico-giudiziario: per ripristinare la bigenitorialità, messa in crisi dal rifiuto del minore, i tribunali con il supporto dei consulenti, tolgono il bambino a quella madre con cui è cresciuto e da cui si sente protetto, lo sradicano da tutto il suo contesto di vita, lo mettono in una struttura estranea a lui, in cui non vedrà più la madre, ma in cui ricomincia in modo obbligato a rivedere il padre, fin quando assuefatto a questo nuovo regime, sarà pronto ad andare a vivere con il padre. Questo trattamento inumano e degradante per un bambino, costretto spesso anche manu militari a lasciare la sua casa, è spesso accompagnato da provvedimenti in cui si vieta per anni l’accesso della madre al figlio. E alla fine si scopre l’arcano: non si voleva ripristinare la bigenitorialità ma solo riaffermare il diritto paterno, la genitorialità paterna che evidentemente nonostante la legge del 1975 continua a valere più della genitorialità materna.

Tutto ciò accade sempre e solo perché non viene valutato l’incipit della vicenda separativa e cioè la violenza domestica e il maltrattamento assisti- to che genera paura, timori e rifiuto nel bambino verso il padre. Oggi la riforma Cartabia ispirata dall’inchiesta della Commissione ha indicato nel Capo III le disposizioni speciali in caso di violenza domestica e di genere, focalizzando l’attenzione sulle allegazioni e stabilendo quindi i criteri per affrontare in modo corretto la violenza.

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