Alla 59esima Biennale il percorso si snoda fra le artiste di tutti i continenti, un viaggio nell’Arte vista attraverso gli occhi, le mani, il cuore, la visione del mondo della Donna, interprete sensibile del nostro tempo.
A cominciare dal titolo “The milk of dreams”, l’edizione di quest’anno pare alludere alla sfera femminile, prendendo a prestito il titolo del libro per bambini di Leonora Carrington, l’artista surrealista che ama il sogno come metafora di un mondo magico e fantastico. Nelle sue opere, infatti, scrittura e disegno rimandano a un mondo fiabesco, onirico, svincolato da precise coordinate spazio-temporali, dove l’immaginazione prende il sopravvento e trasforma la materia. La Carrington, insofferente e ribelle nei confronti di una società ancora patriarcale, nei primi anni settanta, si schiera apertamente a favore dei movimenti per i diritti della donna e nel 1968 non esita ad abbandonare il Messico, dove viveva dal 1942, come atto di protesta contro la violenta repressione del movimento studentesco.
La dimensione del sogno ci accompagna e prende forma grazie alla regista franco-algerina Zineb Sedira, una video artista femminista, quarta donna a rappresentare la Francia nella storia della Biennale: “I sogni non hanno titolo” è una installazione cinematografica che, fra storia e finzione, allude alle speranze di cambiamento dopo le lotte di liberazione dal colonialismo. Il padiglione si trasforma dunque in un vero e proprio set cinematografico che trascina lo spettatore/visitatore a danzare al ritmo delle sequenze filmiche, a danzare per resistere, per rinascere, per sognare…
Così come sogna di librarsi in aria col suo aquilone il ragazzino afghano che in quel gioco pare interagire col cielo e confrontarsi con forze sconosciute. Il padiglione del Belgio ci riporta all’infanzia attraverso i poetici e suggestivi video di Francis Alys che esplora “The Nature of the Game” ed elabora il progetto Children’s Games, attraverso tutti i continenti. Ma i sogni dei bambini e i loro giochi paiono infrangersi nello scontro col violento mondo degli adulti, sembra dire l’artista, attraverso l’occhio della sua telecamera. La sua coraggiosa denuncia fa luce su un mondo stravolto dalla sopraffazione e dal degrado ambientale, in cui i bambini riescono tuttavia a trovare una via di scampo grazie alla “Natura del gioco”, un gioco che solo loro riescono a inventare. Ed ecco alcuni bambini della Repubblica Democratica del Congo, esili corpi che si stagliano sulla distesa oscura delle scorie di una miniera di cobalto, mentre spingono faticosamente sulla cima di quella montagna nera dei grossi pneumatici. E poi l’adrenalina pura di infilarsi all’interno del copertone e rotolare vorticosamente giù dal pendio!
L’Africa ritorna e domina nel padiglione degli USA attraverso l’arte potente di una donna, Simone Leigh, nata negli Stati Uniti da genitori giamaicani. “Femminismo nero” è stato definito il suo messaggio artistico che volge lo sguardo alle donne di colore e alla cultura africana con i suoi simboli, un imprinting “latente” ma fortemente radicato in lei. Il suo messaggio “Sovereignity” fa riflettere sul destino di tanti popoli, sulle aspirazioni all’autodeterminazione, all’affrancamento da nuove schiavitù e coglie il grido di coloro, specie le donne, che vogliono essere autori e attori della propria storia.
Cecilia Alemani, curatrice della biennale, immagina un viaggio trans-storico che procede per rapporti di solidarietà e sorellanze attraverso artiste che hanno “ripensato le categorie dell’umano e del sé”. Ed ecco nella prima sala dell’Arsenale l’arte potente ed espressiva di Belkis Ayòn, afrocubana, adepta di una confraternita segreta e misterica, tutta maschile, che tramanda il mito della principessa Sikàn, condannata a morte per aver infranto un segreto ed essere venuta meno a un giuramento. Personaggio centrale dell’arte della Ayòn, l’infelice Sikàn è al centro della sala, in una enigmatica scultura dai lineamenti misteriosi, priva degli occhi, il volto incorniciato da lunghe trecce. L’arte di Belkis/Sikàn è anche una denuncia contro una cultura sessista e patriarcale, cui si ribella mettendo in luce la presenza femminile nel mito e nella religione ancestrale. Un omaggio doveroso a questa grande artista, che, poverissima, riuscì a diplomarsi all’Istituto superiore d’Arte a La Havana e a ottenere riconoscimenti internazionali, pur nella sua breve vita: morì infatti nella capitale cubana nel 1999 a soli 32 anni.
Una Biennale delle donne dunque, una coraggiosa inversione di tendenza, per una storia dell’arte riletta al femminile: di 213 partecipanti da 58 nazioni oltre l’80% sono artiste, brave, coraggiose. con la loro ansia di libertà, il loro immaginario, con i loro sogni…
“The Milk of Dreams” racconta la condizione umana fatta di dominio, sottomissione, ribellione, potere e speranze, un “latte” che alimenta tutti coloro che credono nella bellezza dei propri sogni!