VENEZIA1

A Venezia le donne protagoniste dell’Arte

di Wilma Malucelli

Alla 59esima Biennale il percorso si snoda fra le artiste di tutti i continenti, un viaggio nell’Arte vista attraverso gli occhi, le mani, il cuore, la visione del mondo della Donna, interprete sensibile del nostro tempo.

A cominciare dal titolo “The milk of dreams”, l’edizione di quest’anno pare alludere alla sfera femminile, prendendo a prestito il titolo del libro per bambini di Leonora Carrington, l’artista surrealista che ama il sogno come metafora di un mondo magico e fantastico. Nelle sue opere, infatti, scrittura e disegno rimandano a un mondo fiabesco, onirico, svincolato da precise coordinate spazio-temporali, dove l’immaginazione prende il sopravvento e trasforma la materia. La Carrington, insofferente e ribelle nei confronti di una società ancora patriarcale, nei primi anni settanta, si schiera apertamente a favore dei movimenti per i diritti della donna e nel 1968 non esita ad abbandonare il Messico, dove viveva dal 1942, come atto di protesta contro la violenta repressione del movimento studentesco.

La dimensione del sogno ci accompagna e prende forma grazie alla regista franco-algerina Zineb Sedira, una video artista femminista, quarta donna a rappresentare la Francia nella storia della Biennale: “I sogni non hanno titolo” è una installazione cinematografica che, fra storia e finzione, allude alle speranze di cambiamento dopo le lotte di liberazione dal colonialismo. Il padiglione si trasforma dunque in un vero e proprio set cinematografico che trascina lo spettatore/visitatore a danzare al ritmo delle sequenze filmiche, a danzare per resistere, per rinascere, per sognare…

Così come sogna di librarsi in aria col suo aquilone il ragazzino afghano che in quel gioco pare interagire col cielo e confrontarsi con forze sconosciute. Il padiglione del Belgio ci riporta all’infanzia attraverso i poetici e suggestivi video di Francis Alys che esplora “The Nature of the Game” ed elabora il progetto Children’s Games, attraverso tutti i continenti. Ma i sogni dei bambini e i loro giochi paiono infrangersi nello scontro col violento mondo degli adulti, sembra dire l’artista, attraverso l’occhio della sua telecamera. La sua coraggiosa denuncia fa luce su un mondo stravolto dalla sopraffazione e dal degrado ambientale, in cui i bambini riescono tuttavia a trovare una via di scampo grazie alla “Natura del gioco”, un gioco che solo loro riescono a inventare. Ed ecco alcuni bambini della Repubblica Democratica del Congo, esili corpi che si stagliano sulla distesa oscura delle scorie di una miniera di cobalto, mentre spingono faticosamente sulla cima di quella montagna nera dei grossi pneumatici. E poi l’adrenalina pura di infilarsi all’interno del copertone e rotolare vorticosamente giù dal pendio!

L’Africa ritorna e domina nel padiglione degli USA attraverso l’arte potente di una donna, Simone Leigh, nata negli Stati Uniti da genitori giamaicani. “Femminismo nero” è stato definito il suo messaggio artistico che volge lo sguardo alle donne di colore e alla cultura africana con i suoi simboli, un imprinting “latente” ma fortemente radicato in lei. Il suo messaggio “Sovereignity” fa riflettere sul destino di tanti popoli, sulle aspirazioni all’autodeterminazione, all’affrancamento da nuove schiavitù e coglie il grido di coloro, specie le donne, che vogliono essere autori e attori della propria storia.

Cecilia Alemani, curatrice della biennale, immagina un viaggio trans-storico che procede per rapporti di solidarietà e sorellanze attraverso artiste che hanno “ripensato le categorie dell’umano e del sé”. Ed ecco nella prima sala dell’Arsenale l’arte potente ed espressiva di Belkis Ayòn, afrocubana, adepta di una confraternita segreta e misterica, tutta maschile, che tramanda il mito della principessa Sikàn, condannata a morte per aver infranto un segreto ed essere venuta meno a un giuramento. Personaggio centrale dell’arte della Ayòn, l’infelice Sikàn è al centro della sala, in una enigmatica scultura dai lineamenti misteriosi, priva degli occhi, il volto incorniciato da lunghe trecce. L’arte di Belkis/Sikàn è anche una denuncia contro una cultura sessista e patriarcale, cui si ribella mettendo in luce la presenza femminile nel mito e nella religione ancestrale. Un omaggio doveroso a questa grande artista, che, poverissima, riuscì a diplomarsi all’Istituto superiore d’Arte a La Havana e a ottenere riconoscimenti internazionali, pur nella sua breve vita: morì infatti nella capitale cubana nel 1999 a soli 32 anni.

Una Biennale delle donne dunque, una coraggiosa inversione di tendenza, per una storia dell’arte riletta al femminile: di 213 partecipanti da 58 nazioni oltre l’80% sono artiste, brave, coraggiose. con la loro ansia di libertà, il loro immaginario, con i loro sogni…

“The Milk of Dreams” racconta la condizione umana fatta di dominio, sottomissione, ribellione, potere e speranze, un “latte” che alimenta tutti coloro che credono nella bellezza dei propri sogni!

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Orange the world

in 16 days 2022

Non accettare nessuna forma di violenza CHIAMA IL 1522, in tandem con la Campagna SIE READ THE SIGNS

Il Soroptimist International d’Italia, anche quest’anno, sosterrà la campagna internazionale Orange the World promossa dall’Onu, da UNWomen e dalla nostra Federazione Europea; dal 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza, al 10 dicembre, giornata internazionale per i diritti umani che coincide con il nostro Soroptimist Day, partiranno i 16 giorni di attivismo che ci vedranno unite per realizzare iniziative ed azioni di sensibilizzazione utilizzando in tutta la comunicazione il colore arancione, simbolo di un futuro senza violenza di genere e il motto dell’Unione: NON ACCETTARE NESSUNA FORMA DI VIOLENZA – CHIAMA IL 1522. La novità di quest’anno è che proporremo e sosterremo insieme anche l‘innovativa Campagna di Comunicazione della Federazione Europea “Read The Signs”, che unifica tutti i Club del SIE e chiede a tutte le soroptimiste una forte mobilitazione per prevenire la violenza domestica. Siamo chiamate ad un’azione corale che renderà ancor più efficace il nostro messaggio e la nostra azione di sensibilizzazione contro la violenza di genere. Il 1522 è il numero telefonico di servizio pubblico promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità. Il numero, gratuito è attivo 24 h su 24, per tutti i giorni dell’anno ed èaccessibile dall’intero territorio nazionale gratuitamente, sia da rete fissa che mobile, con operatrici specializzate che accolgono le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking, garantendo il completo anonimato per favorire l’emersione del fenomeno della violenza intra ed extra familiare a danno delle donne. Le operatrici telefoniche dedicate al servizio forniscono una prima risposta ai bisogni delle vittime di violenza, offrendo informazioni utili e un orientamento verso il centro antiviolenza più vicino o i servizi socio-sanitari pubblici e privati presenti sul territorio nazionale.

Le Iniziative Orange 2022 dell’Unione Italiana

In una continuità d’azione, anche nel 2022 l’Unione Italiana propone le due iniziative caratterizzanti che vanno ad “accendere” l’attenzione direttamente sulla rete volta all’assistenza delle vittime e sui luoghi deputati a proteggerle: una simbolica illuminazione in arancione delle Caserme dei Carabinieri e delle Questure che ospitano le nostre “Stanze tutte per sé” e l’acquisto delle clementine antiviolenza di Confagricoltura Donna il cui ricavato andrà ai Centri antiviolenza territoriali.

Tra le iniziative dei club, vi segnaliamo il Progetto Sacchetti “antiviolenza” da distribuire alle farmacie con lo slogan “NON ACCETTARE NESSUNA FORMA DI VIOLENZA- CHIAMA IL 1522, realizzato per la Campagna Orange 2021 dal Club di Como; il Progetto ha ricevuto anche una menzione ai BPA 2022 del SIE e lo scorso
anno è stato adottato da tanti club da nord a sud anche grazie alla rete delle socie farmaciste. Per chi fosse interessato, Il Club di Como si propone come capofila e come supporto e potete contattarlo scrivendo una mail.

Iginio-Rossi

Nuovi scenari urbanistici

Intervista a Iginio Rossi, Architetto Istituto Nazionale di Urbanistica

di Cinzia Grenci

Iginio Rossi è Architetto, si occupa del funzionamento urbano con particolare attenzione all’accessibilità a 360° delle città intesa come diritto fondamentale di tutte le persone e alla rivitalizzazione degli organismi urbani territoriali economici anche a livello territoriale in riferimento alla rigenerazione urbana, alla mobilità attiva, ai centri storici e al funzionamento delle attività miste diffuse.

Fondatore e coordinatore di “Città accessibili a tutti” e responsabile dell’omonima Community INU, Istituto Nazionale di Urbanistica.

Componente del CdA di Urbanistica Italiana srl, Urbanpromo. Coordinatore del blog “Territori Ciclici” all’interno del sito “urbanisticainformazioni.it”.

Come sono cambiate nel tempo le nostre città? Come sono cambiati i concetti di centro e periferia?

È un processo pluri millenario che in alcuni casi ha prodotto effetti positivi sugli insediamenti urbani ma in altri si è tradotto nella scomparsa della città, quella bella, attraente, incline al “bene-essere”. Anche oggi è così, a dettare percorsi e direzioni delle trasformazioni sono le persone: se le guidano visioni illuminate i luoghi migliorano crescendo se invece le ottiche sono “avare” i luoghi peggiorano, degradano e perdono caratteri, identità.

Per ciò che riguarda il rapporto centro/periferia, i fatti di cronaca nera degli ultimi mesi, confermano la presenza, per la verità non nuova, del conflitto socio-culturale-economico invece che spaziale. In alcune situazioni il centro è diventato marginale mentre la periferia ha assunto centralità, dinamismo, attrazione. Mi riferisco, per esempio, alle azioni condotte dal Politecnico di Milano nel quartiere San Siro all’interno del progetto “Off Campus” in cui si genera ricerca su contesti marginali, l’abitare, la povertà educativa e le segregazioni in contesti multiculturali.

Contemporaneamente hanno un ruolo di primo piano educazione e cultura con laboratori formativi, eventi culturali e confronti-scambi.

Le città sono microcosmi nei quali si riproducono fenomeni complessi: relazioni tra esseri umani, tra esseri umani e cose, tra esseri umani e spazi; rapporti di lavoro, incontri e scontri generazionali, convivenza tra diversi. Come si cerca di governarli attraverso l’urbanistica?

Il quadro di riferimento per sviluppare i governi urbani e territoriali oltre a essere complesso, articolato, è caratterizzato da dimensioni fortemente frammentarie. Mi limito a ricordare che la frammentazione riguarda non solo l’organizzazione politica, istituzionale e operativa delle amministrazioni ma concerne anche la democrazia, i diritti, le garanzie, le tutele, i servizi, cioè aspetti che incidono direttamente sulla qualità della vita delle persone contribuendo ulteriormente a incrementare fragilità, esclusione, povertà, disuguaglianze. Consapevole dell’importanza di risolvere questo nodo cruciale, l’INU ha dedicato il XXX Congresso nel 2019 proprio a cercare modalità in grado di governare la frammentazione. La soluzione è stata indicata nella costruzione di un patto per l’urbanistica che può consentire di rendere l’urbanistica socialmente utile. Subito dopo quel Congresso la community “Città accessibili” ha iniziato a lavorare al programma “Un patto per l’urbanistica città accessibili a tutti”. Dalla primavera 2021 abbiamo avviato una sperimentazione con 8 città (Ancona, Catania, Genova, Livorno, Mantova, Reggio Emilia, Spello e Udine) all’interno dei temi dell’accessibilità, inclusione, sostenibilità e bene-essere. In occasione di Urbanpromo città (11-14 ottobre 2022) presenteremo la sintesi di questa sperimentazione giunta alla conclusione della prima fase inerente lo sviluppo locale dalla quale prenderà avvio un successivo percorso per individuare entro il 2023 le soluzioni replicabili nella dimensione più ampia corrispondente alla visione Paese.

Un lavoro che deve necessariamente rimanere “aperto” considerata la velocità dei cambiamenti sociali e culturali nei nostri territori …Bisogna immaginare una città facilmente adattabile alle novità?

Nel 2016 all’interno dell’iniziativa “Il Paese che vorrei” collaterale al XXIX Congresso INU dedicato al “Progetto per il Paese” è stata presentata la costituzione di uno spazio collaborativo per il confronto su indirizzi, esperienze e prospettive di miglioramento del funzionamento urbano. La proposta sottoscritta da Fabrizio Vescovo, padre della normativa italiana inerente l’accessibilità integrata da Giorgio Raffaelli (Festival per le città accessibili di Foligno,) da Luigi Bandini Buti (Design for All Italia) e dal sottoscritto, ha dato avvio a “Città accessibili a tutti” un progetto a rete, indirizzato al confronto tra le professioni, gli studiosi, le associazioni e le istituzioni. Forte delle numerose adesioni, nel 2019 è stato pubblicato http://atlantecittaccessibili.inu.it/. Nella piattaforma sono raccolte le Linee guida per politiche integrate, un’articolazione di indirizzi e orientamenti rigardanti: progetti, strumenti, processi e formazione, costruita da un gruppo di lavoro esteso ed eterogeneo. Non un quadro statico bensì un riferimento metodologico; proprio in considerazione del continuo processo di cambiamento cui è sottoposto lo spazio urbano, anche l’accessibilità è un valore dinamico, legato alle condizioni storico-ambientale-culturali del momento. Per ciò dedichiamo da alcuni anni attenzione alle innovazioni provenienti dal “mondo” delle università e ricerche-studi. Dal 2019 abbiamo lanciato il Premio per tesi di laurea magistrali e ricerche-studi con il supporto della Camera di Commercio di Genova e la collaborazione del Ministero della Cultura, del Consiglio Nazionale delle Ricerche e del Cerpa Italia Onlus. Il bando di questo anno è pubblicato in https://urbanpromo.it/info/call-for-paper-2022/ la scadenza è il 3 ottobre 2022.

Il Soroptimist Italia ha promosso il progetto “La città che vorrei” per raccogliere idee, bisogni, proposte che configurino una realtà urbana a misura di donna. Secondo lei, una città che risponda ai desideri e alle istanze femminili è un ambiente in generale più vivibile per tutti?

Senza dubbio l’attenzione alle specificità di genere e la rispondenza alle richieste provenienti dalla presenza femminile consente alla città un funzionamento in grado di offrirle maggiore dignità, eguaglianza e libertà. Nell’Atlante, oltre i 200 casi, è documentata l’esperienza “Stare di casa nella città. Donne con disabilità” realizzata dalla “Casa delle donne Ravenna”, gestita dall’Associazione APS Liberedonne. Il percorso aveva evidenziato una totale assenza di partecipazione di donne con disabilità e una riflessione, molto parziale e solo accennata, del rapporto tra donne e città. Stare di casa nella città ha quindi cercato il coinvolgimento diretto di donne con disabilità e madri con figli/e con disabilità in modo da raccogliere quanti più punti di vista possibile rispetto ai temi della mobilità e della sicurezza urbana nel vivere quotidianamente la città. Il tema delle diseguaglianze – discriminazioni legate al genere è molto considerato al nostro interno. Nel gruppo di lavoro “Città accessibili a tutti” dall’inizio vantiamo la presenza di Piera Nobili, presidente del Cerpa Italia Onlus, da lungo tempo tra le persone studiose nonché militante più attente e impegnate per un cambio di paradigma sociale ma anche strutturale delle città in grado di migliorarne la fruizione di genere.

Il Pnrr offre strumenti progettuali ed economici per migliorare le nostre città, modernizzarle, adeguarle ai nuovi bisogni senza necessariamente perdere la loro “anima”, la loro storia, le loro peculiarità?

È decisamente difficile fornire una risposta seria in questa fase ancora tutta solo scritta nei progetti, molti dei quali usciti dal letargo dei cassetti, oppure abbozzata in ipotesi da definire. La dimensione complessiva è un po’ smisurata. Al Pnrr si affiancano gli altri numerosi programmi di finanziamento provenienti ancora dallo Stato e dall’Unione europea. Dal nostro punto di osservazione mi sembra utile sottolineare: la disarticolazione tra le istituzioni; le disposizioni farraginose nei differenti livelli di attuazione; la mancanza della continuità amministrativa; l’inesistenza di una visione comune per politiche di competenza regionale che possono arrivare a fare vivere alle persone (per assurdo) 20 modalità diverse e magari contrastanti nella relazione urbana. Ci sono però segnali positivi: è stata costituita una cabina di regia nell’ambito della Presidenza del Consiglio all’interno dell’Osservatorio sulle condizioni delle persone con disabilità che deve fornire una valutazione congrua per tutti i finanziamenti del Pnrr in termini di accessibilità e inclusione: se manca, il finanziamento non può essere emesso; il cronoprogramma continua a essere rispettato nonostante vastità e complessità che prima cui ho accennato; le amministrazioni pubbliche sebbene con organici sofferenti stanno ottemperando all’iter progettuale-attuativo.

Grillo-Luciana

Con mani di Donna

La rubrica di Luciana Grillo

Autunno, tempo di ripresa

Ad agosto, con aziende e fabbriche chiuse, sembra che tutto il mondo sia in vacanza, poi ricomincia il lavoro, fioccano gli impegni, ci si prepara ad una stagione lunga fatta di consuetudini e talvolta di novità.

Per gli studenti, con l’apertura dell’anno scolastico, riprende l’impegno, anche se, passando da ciclo a ciclo scolastico, cambiano tante cose, dall’edificio agli insegnanti, dalla distribuzione delle ore di studio ai compagni. Quest’autunno 2022 è però diverso dagli altri: dopo tre anni tormentati dalla pandemia, gli studenti aspettano il momento di andare a scuola “veramente”, senza DAD, con libri nello zaino, compagni da incontrare, nuovi impegni da affrontare.

Da ex insegnante, mi sono calata sia nel mondo dei ragazzi che forse, come mai prima, desiderano alzarsi presto, prendere la corriera e varcare il portone della scuola, eccetera eccetera, sia in quello delle insegnanti che hanno dovuto forzatamente abbandonare registri, interrogazioni e lezioni frontali per svolgere un lavoro da casa, più comodo per certi versi, ma sicuramente più complicato per altri, come ad esempio mantenere sempre vigile l’attenzione degli studenti che, davanti al computer, possono pensare ad altro o anche guardare un torneo di tennis dal televisore posto dietro il computer…

Per chiarirmi le idee, ho chiesto a cinque insegnanti di parlarmi di ciò che si aspettano da questo anno scolastico: Barbara ha raccontato la scuola degli ultimi anni “chiusa, meccanica e ripetitiva…banditi viaggi d’istruzione, vivaci assemblee di Istituto, uscite sul territorio”; ha pensato a studenti che hanno perduto persone care per il covid, e non hanno potuto neanche salutarle…dunque non si chiede quale scuola voglia, ma piuttosto quale scuola non voglia.

Anche Vincenza, dopo isolamento e costrizione, vuole tornare a “una scuola il più possibile partecipata e partecipativa, improntata sulla relazione tra persone e tra discipline”, mentre Ricciarda ricorda una casa improvvisamente rivoluzionata per far posto agli strumenti della DAD e confessa di aver considerato questa didattica “come un ponte verso gli studenti” abituati a una scuola fatta di lavoro fianco a fianco. “La didattica a distanza in molti casi ha fatto apprezzare la scuola come non accadeva da tempo… è stata un’occasione per ripensare alla scuola di domani…per abbandonare una volta per tutte l’impolverata concezione di “programma scolastico”.

Ginevra vorrebbe ritornare alla scuola tradizionale…lezioni frontali…senza troppe carte da compilare, e anche Fabiana dice che “la scuola che vorremmo in futuro deve necessariamente recuperare una parte del passato per essere al passo coi tempi, curare la formazione dell’alunno basata sugli stimoli alla lettura e alla formazione del pensiero critico”. E conclude ricordando che “il linguaggio degli alunni si è talmente impoverito da limitare l’espressività verbale e le capacità analitiche…Il recupero dello studio delle discipline umanistiche va assolutamente potenziato come percorso di sviluppo del pensiero critico.

Potrei non essere d’accordo?

FERRARA1

Bruxelles, città sostenibile

Intervista a Laura Ferrara, Europarlamentare

di Luigina Pileggi

Una città a misura di famiglia. Ma soprattutto a misura di donna. Dove servizi per l’infanzia, trasporti e sostegni sono alla portata di tutti e soprattutto di tutte. A raccontare come si vive a Bruxelles è Laura Ferrara, eurodeputata italiana (M5s), che da Cosenza (Calabria) ha deciso di trasferire tutta la sua famiglia nel cuore pulsante dell’Europa.

Da giovane donna e mamma, infatti, dopo un primo periodo da “pendolare”, ha deciso di portare con sé marito e i suoi due figli, che nel frattempo sono diventati tre. “Quando sono stata eletta nel 2014 mi spostavo solo io e cercavo di capire come organizzare la mia famiglia, avendo due bambini molto piccoli, uno di un anno e una di tre anni e mezzo. Viaggiavo continuamente e i miei figli li lasciavo sempre in Italia. Ogni volta però era una sofferenza. Per questo li ho iscritti a due asili privati: 15 giorni frequentavano quello di Bruxelles e altri 15 giorni quello di Cosenza. Una situazione che però non era affatto ideale, creando instabilità nei bambini che, appena stringevano un’amicizia venivano catapultati in un’altra realtà, dove bisognava ricominciare tutto daccapo”.

Poi un episodio ha fatto scattare nella giovane mamma la decisione di cambiare vita. “I bambini stavano spesso con i nonni – spiega Laura Ferrara – un giorno mia mamma mi disse al telefono che quando sarei tornata da Bruxelles avrei visto camminare il mio secondo figlio. Lì ho capito che stavo perdendo momenti importanti della vita dei miei figli. Di certo avrei potuto lasciare tutto com’era, e da grandi avrei potuto raccontare loro quello che ho fatto come europarlamentare. Ma non sarebbe stata una consolazione. Così con mio marito decidemmo di trasferirci tutti a Bruxelles e iscriverli alle scuole Statali”.

E se per i primi anni è stata una staffetta continua, perché poi il venerdì si ritornava in Calabria, tutto è cambiato con l’arrivo del Covid, in quanto a Bruxelles la scuola è sempre rimasta aperta.

Da qui la decisione di rimanere a vivere di più nel cuore dell’Europa.

“Bruxelles è una città bellissima con un unicum – evidenzia la giovane mamma – è una città multietnica, dove si ha la possibilità di conoscere persone da tutte le parti del mondo. Quando iscrissi mia figlia a scuola, chiesi alla maestra di avere un occhio di riguardo per mia figlia perché non parlava bene il francese, in quel momento scoprii che il 90 per cento dei bambini era nella stessa situazione di mia figlia: c’erano bambini di nazionalità indiana, cinese, brasiliana, turca. Tutti con genitori che si trovano a Bruxelles per motivi di lavoro. E questo è un valore aggiunto, peculiare e meraviglioso, perché apre la mente e dà la possibilità di conoscere senza alcun tipo di pregiudizio lingue e culture diverse”.

Ma oltre all’aspetto culturale e sociale, Bruxelles è anche una città che va incontro alle famiglie e soprattutto alle giovani coppie. Sono previsti infatti assegni, sussidi e diversi aiuti per fronteggiare le spese relative alla crescita dei figli. E questo favorisce la creazione di giovani famiglie e soprattutto le nascite: avere tre o quattro figli, a queste latitudini, è infatti normalissimo. Ben diversa invece la situazione in Italia, dove i sussidi sono quasi inesistenti. “Per una donna – prosegue Ferrara – conciliare la vita lavorativa con quella di mamma in Italia è molto difficile, soprattutto quando i figli sono piccoli. Gli asili nidi sono pochissimi e se non si ha la fortuna di avere nonni in forza fisica di stare dietro ai bambini diventa difficile poter conciliare l’attività professionale e lavorativa. Per le difficoltà organizzative ed economiche molti giovani rinunciano o ritardano il desiderio di avere una famiglia”.

E poi ci sono i servizi. “La città è piena di spazi verdi attrezzati per i più piccoli – spiega Laura Ferrara – con spazi dedicati a loro, giochi e percorsi ben tenuti e funzionali, cosa non proprio scontata dalle nostre parti. Nonostante il clima non proprio favorevole, si vive spesso all’aperto, anche quando c’è la pioggia”. Tantissime sono poi le attività parascolastiche organizzate quotidianamente, con un’offerta molto ampia che spazia dalle attività sportive a quelle musicali a corsi di manualità, falegnameria e creatività. Tutto promosso dai Comuni, scuole, associazioni e strutture sportive. E poi ci sono le domeniche di lettura al parco per i più piccoli.

Anche per quanto riguarda i trasporti, Bruxelles è a misura di famiglia. Metro e autobus collegano in modo capillare tutti i quartieri e questo permette di non perdere tempo per raggiungere il posto di lavoro o per spostarsi per qualsiasi altra attività. Si utilizzano i mezzi pubblici, che arrivano con precisione”.

Insomma, due mondi differenti, con un gap abissale per le famiglie. Ecco perché l’auspicio è quello di poter utilizzare al meglio i fondi del Pnrr, attuando riforme strutturali capaci di migliorare la condizione dell’Italia, che si trova attualmente in una situazione di arretratezza sotto tutti i punti di vista, dai trasporti alla digitalizzazione al sistema sanitario. “Se saputi utilizzare – conclude l’europarlamentare – i fondi per il Sud possono rappresentare un momento di ripartenza importante, che va saputa cogliere e non sprecare. Questa è un’occasione unica che non dobbiamo perdere. Perché altrimenti non avremo più scusanti”.

PENSIERI

L’ozio, vizio o virtù?

… ma insomma cos’è questo ozio / ora / in questi tempi violenti, pensato come dolce far niente o totale passività / è una questione di stasi che va e viene e vola in azzardo come iato imprescindibile?
Ora l’otium di latina memoria, sapienza dimenticata dalla nostra cultura, annaspa tra utili netti e profitti da perseguire anche col fiato corto / ora non c’è tempo da perdere, mentre quasi tutto s’è perso, compreso il proprio tempo.
Si baratta, ora, la conoscenza interiore / si cancella ogni meditazione a favore del negotium senza prendersi cura di sé per poter afferrare qualche lampo di saggia felicità / si corre, ora, a perdifiato in territori di ossessive ambizioni e frustrazioni / giocando una partita persa in partenza.
E allora, ora, viene da dirsi, quando morde il dolore e la morte sogghigna, se non sia insano affogare in un mare di babeliche indecenze, sempre interconnessi e sempre più soli.
Mai, come ora, è tempo di arricchire la vita di tempi sospesi per riflettere tra gli affanni e gli impegni costanti e inevitabili, di perderci negli estetici giochi delle nuvole, di immergerci nella goccia di rugiada che brilla su un fiore, di respirare il vento, di impreziosirci della bellezza in un intrico di verde fogliame, di inseguire pensieri ballerini che s’affacciano fugaci, di indorarci di luce per cogliere qualche balenìo di verità che, a volte, disvela il mistero che ci avvolge, di immaginare il suono delle cosmiche sfere, di meravigliarci del nostro stesso respiro.
Mai, come ora, questo “ozio” vitale potrebbe nutrirci e renderci più umani su questa terra madre, straricca di ingiustizie e di sopraffazioni vergognose, nell’indifferenza quasi totale, ora.

Anna Maria Giancarli

I legami dell’essere

L’oziare viziando l’impulso di creare panorami senza confini, trasformandoli in virtuosi legami dell’essere. La meravigliosa scoperta di lasciarsi trascinare nella lentezza degli oziosi pensieri che sanno regalare emozioni sempre nuove.
Sabrina Giangrande
Giornalista

L’ozio è il padre dei vizi

“L’ozio è il padre dei vizi”, recita il detto.
Eppure, oggi, in questa quotidianità frenetica, schiacciata dagli impegni, tormentata da notifiche, obblighi, pressioni, rumori e suoni incessanti l’ozio può rappresentare una virtù.
Un attimo di riflessione.
Un momento di silenzio.
Una pausa.
Corriamo per raggiungere il posto di lavoro, l’università, la scuola, corriamo per riempire le nostre vite, forse perché gli attimi di vuoto ci fanno paura.
Siamo così abituati a vivere in affanno che ci dimentichiamo di respirare, di prenderci del tempo da dedicare al niente.
Riprendiamoci l’ozio.
Possiamo scegliere di strappare un attimo di ozio a questo mondo che ci vuole sempre attivi…
Per restare in compagnia di noi stessi, della nostra anima.
“L’ozio è una virtù.”

Piccola poesia oziosa – l’ozio

Ozio

L’abbaiare di un cane.
Il frinire stanco di un grillo.
Il fresco della sera.
Lo scricchiolio dei passi di un vicino.
La confusione immota delle stelle.
Il sapore delle amarene.
Una macchina lontana.
E poi il silenzio.

Cristina Cerasi
Copywriter

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Fiocco rosa nel Soroptimist

E’ nato il club di Sulmona

È nato il 16 Luglio di quest’anno a Sulmona il 172° Club del Soroptimist International d’Italia, il primo dopo la pandemia, il quinto in Abruzzo. Simbolo della grande forza soroptimista, donne al lavoro che hanno fatto squadra spinte dalla passione ad andare avanti anche nei momenti di massima emergenza.

Alla guida del neonato club di Sulmona è stata designata come Presidente Cinzia Di Gesualdo, imprenditrice di successo nel settore dell’abbigliamento fashion femminile.

La nascita del Club sulmonese è stata opera del Club dell’Aquila, Presidente Flavia Stara e Francesca Pompa che ne è la Madrina, con il grande contributo di Maria Antonietta Salmè del Club di Chieti, Jaana Simpanen e Alessia Ferreri del Comitato Estensione.

La Cerimonia di Fondazione si è tenuta presso la suggestiva Abbazia di Santo Spirito al Morrone, a Badia (Sulmona), alla presenza della Presidente dell’Unione Italiana Giovanna Guercio. La consegna della Charte è stata affidata alle mani di Anna Marie Vreman, SIE Scholarship & Mentoring Committee Chair.

Queste le parole della Presidente Nazionale Giovanna Guercio sulla fondazione del nuovo club: “Un momento di entusiasmo e gioia dell’intera Unione la fondazione del Club di Sulmona a cui tutte le Socie sono invitate a mettere a disposizione la propria esperienza e amicizia Soroptimista, favorendo l’armonioso inserimento delle nuove “sorelle” nella nostra “famiglia” di oltre 5000 Socie e dal 16 luglio, di 172 Club!”

Sono ben trentacinque le socie fondatrici del Club di Sulmona, pienamente in linea con la caratteristica del Soroptimist International che è quella di essere un’associazione mondiale di donne impegnate in attività professionali e manageriali, una voce universale che si esprime attraverso la presa di coscienza, il sostegno e l’azione.

A celebrare la nascita del Club di Sulmona un ricco programma di accoglienza.

Sulmona, nota per i confetti e per il poeta Ovidio, definita “città dell’amore” ora ha un altro elemento di vanto. Calorosa è stata l’accoglienza che le socie fondatrici hanno riservato agli ospiti con un ricco programma che ha preso il via già dalla serata di venerdì 15 luglio con una cena di benvenuto.

La mattina di sabato 16 luglio è stata un emozionante preludio alla fondazione del nuovo club, concentrata sulla celebrazione del territorio con un giro turistico nell’incantevole borgo di Scanno, già amato e ritratto da artisti di fama internazionale, alla scoperta dell’artigianato storico locale come l’antica arte orafa e la lavorazione del tombolo per la creazione di pizzi e merletti. Non sono mancati percorsi gastronomici e degustazioni di prodotti tipici abruzzesi.

Nel pomeriggio dello stesso 16 luglio il programma dedicato alla fondazione è entrato nel clou, con l’Assemblea Costitutiva riservata alle socie Fondatrici del Club. In serata l’Abbazia di Santo Spirito al Morrone, addobbata con estrema cura e ricercatezza, si è illuminata per la Cerimonia di Fondazione del Soroptimist International d’Italia Club Sulmona alla quale hanno partecipato i rappresentati delle istituzioni regionali, comunali e provinciali e le massime autorità religiose e civili.

Trentacinque nuove socie sono entrate a far parte della grande famiglia soroptimista, hanno unito ufficialmente le proprie voci a quelle del Soroptimist International d’Italia, per promuovere i valori etici e la mission che da anni caratterizzano la sorellanza.

Le trentacinque socie del club di Sulmona

Arquilla Agata, Dirigente sanitario
Caroselli Antonella, Impiegata ASL
Cianferra Maria Isabella, Ristoratrice
Colasante Iolanda Alicia, Dirigente Medico Fisiatra
D’Angelo Corinna, Arredamento e Progettazione Interni ed Esterni
De Chellis Antonella, Gestore Agriturismo
De Monte Aurelia, Titolare Farmacia
Di Benedetto Elide, Dirigente medico Anestetista
Di Censo Roberta, Segretaria Amministrativa Studio Dentistico
Di Gesualdo Cinzia, Commercio Abbigliamento
Di Marzio Katia, Commercialista
Di Massa Maurizia, Dirigente Comunale
Di Massa Stefania, Danza e Spettacolo
Di Meglio Patrizia, Marketing Turistico
Di Mercurio Mirta, Sanitaria
Di Roberto Eleonora, Rivendita e progettazione infissi e porte
Fantauzzi Caterina, Dirigente Scolastico
Festa Franca, Presidente Dopolavoro Ferroviario
La Porta Antonietta, Impiegata Amministrativa
Latini Valentina, Organizzazione Eventi
Leombruni Maria Vincenzina, già Imprenditrice settore Tessile
Leonarduzzi Luisa, Agente Immobiliare
Liberatore Lucia, Assaggiatore olio
Liberatore Sara, Architetto
Margiotta Francesca, Enologa
Naccarella Antonella, Docente
Pace Cecilia, Imprenditrice Agricola
Pecilli Laura, Medico Specialista – Sport
Pennella Ines, Medico Ospedaliero – oculista
Pietrosanti Claudia, Titolare Centri Estetici
Ranalli Maria, Titolare Negozio Ottica
Sandonato Jessica, Amministratrice di Condominio
Santacroce Mariadora, Hotel Manager
Sarrocco Tiziana, Odontoiatra Titolare Studio Dentistico
Schiappa Carmela, Impiegata Laboratorio Analisi.

FASANO-NUOVA

La città dei 15 minuti

di Laura Fasano

Abitare la prossimità: dolce utopia o nuova sfida? La pandemia ha cambiato il modo in cui viviamo in città, gli spazi urbani sono in crisi. E si parla sempre più di un modello di progettazione urbana con alla base l’idea che ogni servizio essenziale debba essere raggiungibile con una passeggiata lunga o una pedalata, al massimo, in 15 minuti. Mai come ora, in questo periodo in cui siamo così concentrati su ciò che è locale, ci sembra importante la sensazione di essere connessi e sostenuti. Il 2020 ha portato molte cose, la maggior parte delle quali inaspettate e indesiderate, ma l’attenzione sul luogo dove viviamo sta al cuore di ciò che ci è stato consegnato da questo momento introspettivo. Mai prima d’ora siamo stati costretti a immergerci nelle nostre comunità e a sollevare il velo su ciò che costituisce veramente i nostri quartieri. L’interconnessione tra il progetto delle nostre città e la felicità dei residenti è un racconto che conosciamo bene, ed è proprio la focalizzazione sulla salute e sulla prosperità che ha portato all’importante narrazione del “quartiere dei 15 minuti”. 

Conciliare le esigenze della città sostenibile, ma anche i nuovi ritmi con altri modi di vivere, di abitare, di lavorare, di godere del tempo libero passa allora attraverso una trasformazione dello spazio urbano ancora fortemente funzionale, con la città centro e le sue diverse specializzazioni verso una città policentrica, sostenuta da 4 componenti principali: la vicinanza, la diversità, la densità e l’ubiquità. È la città del 1/4 dell’ora, dell’iper-prossimità, dell’“accessibile” a tutti e in qualsiasi momento. Quella in cui, in meno di 15 minuti, un abitante può soddisfare i suoi bisogni essenziali di vita. Mettere al centro le persone e le loro esigenze, senza dimenticare l’ambiente, questa la sfida. Un centro urbano che avvicina i servizi, ne semplifica l’accesso, riduce le disuguaglianze e migliora la coesione sociale dando valore ad una nuova dimensione sostenibile di vicinato. I vantaggi di questa nuova città dove tutto è “a portata di mano” sono molteplici: ottimizza gli spostamenti, contribuisce alla riduzione dell’inquinamento, permette il ripensamento dello spazio urbano e ne accelera la trasformazione, incoraggia il movimento, dà nuovo valore al tempo, in sintesi: migliora la vita delle persone e punta a preservare l’ambiente, nel breve e nel  lungo periodo.

Se ti domandassero quale sia la caratteristica della tua città ideale… cosa risponderesti? Più verde? Più ricca di attrazioni? Con più servizi? Per tanti, molti, in questo ultimo periodo la risposta giusta è quella che disegna una città dove si impiega massimo un quarto d’ora del proprio tempo per raggiungere, a piedi o in bicicletta (sicuramente non in macchina) il luogo di lavoro, i bar, il supermercato, il teatro, l’ospedale e tutto ciò che può servire nella propria vita. L’idea non è di certo nuova, venne proposta per la prima volta addirittura nel 1923 in un concorso nazionale di architettura di Chicago per costruire nuovi quartieri residenziali compatti. Ma è con le amministrative del 2020, in piena pandemia, che l’idea, grazie alla riconfermata sindaca di Parigi Anne Hidalgo, ha preso nuovo slancio basandosi sulle proposte di Carlos Moreno, docente di urbanistica presso l’Istitut d’administration  des entreprises  della Sorbona. Ed è proprio seguendo i suoi studi che la città dei 15 minuti ha assunto una concezione diversa dall’idea di prossimità orientandosi soprattutto verso un’impostazione sempre più votata allo sviluppo sostenibile. Il compito di urbanisti e architetti, al giorno d’oggi, non è più quindi soltanto fare in modo che le persone possano raggiungere i luoghi di interesse in poco tempo, a bordo di auto, metro o treni, ma dislocare quegli stessi luoghi più vicini alle persone in modo che possano recarsi a piedi o in bici. Il beneficio, naturalmente, sta nel permettere ai cittadini di muoversi di meno o solo con le proprie gambe, abbattendo di fatto anche le emissioni di gas nocivi per noi e per il nostro pianeta.

“Vivere diversamente significa soprattutto cambiare il nostro rapporto con il tempo, essenzialmente tempo relativo alla mobilità che ha fortemente degradato la qualità della vita – spiega lo stesso Moreno – È tempo di passare dalla pianificazione della città alla pianificazione della vita urbana e trasformare lo spazio cittadino attraverso le sei funzioni sociali essenziali: vivere, lavorare, rifornirsi, prendersi cura di sé, imparare e divertirsi”. 

In Europa c’è già qualcuno che su questo versante primeggia: sono i Paesi Bassi. Attraverso una progettazione efficace del territorio e del suo tessuto economico e commerciale, in Olanda per esempio oltre l’89% degli insediamenti rientrano a pieno titolo nella Città dei 15 minuti.

E in Italia? A che punto siamo? Come in Francia recentemente anche i nostri politici hanno cominciato a pensare all’impostazione della città dei 15 minuti. A Milano per esempio sta prendendo piede la visione di quartieri residenziali, anche lontani dal centro storico, caratterizzati da un’integrazione di servizi e proposte: l’operazione di riqualificazione milanese, in nome della micro mobilità salva tempo, non sarebbe comunque un’impresa facile, visto che servirebbe un restyling completo della metropoli. A Roma la proposta è stata avanzata durante la campagna elettorale dal candidato (poi sindaco) Roberto Gualtieri. Non resta che vedere quanto queste promesse trovino poi concreta attuazione nella realtà. D’altronde la scommessa piace agli italiani: secondo un sondaggio realizzato per Legambiente, diffuso di recente, l’idea incontra molti favori e piacciono persino le politiche di limitazione quasi totale della circolazione di auto e moto. La maggioranza degli intervistati ritiene però al tempo stesso che si tratti di un progetto “non realistico”. La pista è quella giusta, insomma, ma il sospetto che si tratti soltanto di uno slogan (almeno al momento) è altrettanto polare. Ma una cosa è certa: fra i benefici della città dei 15 minuti c’è innanzitutto una migliore qualità della vita grazie al tempo che si risparmia negli spostamenti e una maggiore funzionalità dello spazio urbano, che riduce lo stress e incoraggia il movimento. Non solo, un altro importante punto a favore di questo modo di costruire gli spazi urbani è quello di promuovere un maggior senso di prossimità e di comunità, entrambi riscoperti forzatamente in tempi di pandemia, ma che appaiono sempre più un patrimonio del quale volersi appropriare in pianta stabile, sfruttando al massimo le opportunità offerte in tal senso dalla tecnologia. 

Le città devono e possono rinnovare il proprio significato costruendolo insieme e attorno ai propri cittadini, utilizzando la tecnologia come l’attore abilitante per una urban experience efficace e realizzando una interfaccia che risponda alle differenti nature dei suoi utenti. 

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Agnese Pini

L’unica al timone di tre prestigiose testate italiane

Intervista di Silvia Ruspa

Agnese Pini decide di fare la giornalista a sedici anni, dopo aver letto i punti di vista espressi da Oriana Fallaci, Enzo Biagi, Dacia Maraini e Tiziano Terzani, pubblicati sul Corriere della Sera in seguito al crollo delle Torri gemelle, durante gli attentati dell’undici settembre 2001.
Dopo un esordio precoce (il suo primo articolo esce sul quotidiano La Nazione nelle pagine locali di Carrara, il giorno del suo ventiduesimo compleanno), inizia a collaborare con varie testate a carattere nazionale da Il Giorno, l’ANSA, la redazione di Metropoli, Mondadori ed il Gruppo editoriale L’Espresso.
Nel 2016, ritorna alla Nazione con l’incarico di Vice Caposervizio della redazione di Siena.
Nell’anno successivo, si sposta a Firenze, nella sede centrale del quotidiano toscano, dove dal primo di agosto del 2019, prende la direzione, all’età di 34 anni.
Dal primo luglio del 2022, assume anche l’incarico della direzione de Il Giorno, de Il Resto del Carlino e di Quotidiano Nazionale, diventando, di fatto, direttrice di tutti i quotidiani del gruppo editoriale Monrif, amministrato da Andrea Riffeser Monti.

Direttrice, ci può spiegare cos’è QN?

Si potrebbe definire una sorta di vetrina di tre testate storiche, prestigiose, Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione, nata dalla visione lungimirante di Andrea Riffeser.

Questa strategia ha reso possibile un coordinamento fra notizie di carattere internazionale, nazionale e locale con una valorizzazione del territorio, garantita dalle varie redazioni locali che spaziano dalla Lombardia all’Umbria.

Chiaramente, ciò ha comportato un lavoro complesso costruito sull’ascolto, la mediazione, la pazienza nella selezione delle notizie delle varie redazioni ma è ciò che rende unico QN all’interno del mercato editoriale italiano dove la carta stampata, da ormai ventanni, sta perdendo enormi fette di mercato. Il radicamento territoriale di QN costruito sulla familiarità, sulla tradizione e storicità, sulla consuetudine delle tre testate sopra citate funge da ancoraggio nella caduta verticale delle vendite dei quotidiani, in Italia.

Inoltre, la valorizzazione del territorio fa si che notizie locali che rimarrebbero escluse dal circuito nazionale possano emergere ed assurgere, a seconda dei casi, alla diffusione nazionale.

Come si arriva alla Direzione di QN?

Tre anni or sono, venni nominata direttrice de La Nazione di Firenze, a soli 34 anni.

Fu una nomina del tutto inaspettata, proprio in quanto prevedeva un ruolo direttivo da parte di una donna. Si trattò, allora come ora, di una chiara espressione di volontà di genere, da parte dell’Editore.

Se non ci fosse stata questa espressione di valorizzazione di genere, non sarei diventata direttrice de La Nazione, allora e di QN, ora. Purtroppo, in Italia, è ancora impossibile per una donna raggiungere ruoli professionali direttivi, soprattutto in alcuni ambiti di attività e, sicuramente, il giornalismo si colloca fra questi. In effetti, non ho termini di paragone o modelli a cui ispirarmi. Mi rendo conto di rappresentare un’unicità nel panorama editoriale italiano e, proprio per questo, mi sento ulteriormente stimolata a migliorarmi, ponendomi l’obiettivo di una continua formazione professionale e personale.

Esiste un problema di scelta che parte da chi sceglie. È giusto dire e ribadire che io non sono e non mi considero la giornalista donna migliore nel panorama editoriale italiano. Mi è stata concessa un’occasione tramite il meccanismo delle Quote Rosa che rappresentano, incontrovertibilmente, una forzatura ed una distorsione anche rispetto al valore della meritocrazia ma che in un Paese come l’Italia, dove la metà di chi svolge la professione giornalistica è donna, diventa l’unica possibilità di assurgere a ruoli direttivi.

L’ISTAT ci rivela che nel 2021, in Italia seconda manifattura d’Europa oltre che Paese fra i più industrializzati al mondo, mediamente, solo il 49% delle donne è impegnata in un’occupazione stabile, praticamente, una donna su due. Mentre, la percentuale scende al 30% nel Mezzogiorno. La freddezza dei numeri non parla, poi, delle conseguenze di queste rilevazioni in termini di mancanza di autonomia economica, sociale, ma anche negli equilibri familiari.

Quindi, le quote rosa rappresentano un’occasione che non va sprecata per arrivare a giocare delle partite senza handicap in partenza causati dall’identità di genere.

Come si è trovata a dirigere anche i suoi colleghi uomini?

Non sperimento differenze particolari nella direzione. Dirigere coincide, fondamentalmente, nel guidare le scelte degli altri. E ciò lo si fa partendo dall’etica del proprio ruolo ma anche della propria personalità, da chi siamo intimamente. Trovo sbagliato e pericoloso assumere ruoli precostituiti che non ci appartengono.  Il giornalismo che si svolge in redazione si configura come l’attività in cui la scelta è strumento essenziale. La cosiddetta linea editoriale è l’insieme di scelte che la direttrice pone in essere con la sua redazione. E siccome la scelta è opinabile, il giornalismo è il mestiere dove si “sbaglia” maggiormente. Il margine di errore è elevatissimo, soprattutto in un quotidiano. Il deterrente consiste nel fatto che i giornali sono prodotti da tante persone per cui esiste una sorta di controllo e gestione dell’errore interna alle singole redazioni.

Questa la differenza fondamentale con l’influencer che lavora solo.

La direttrice si assume l’ultima fetta della scelta ed è colei che è responsabile della linea adottata.

Esiste una differenza di stile comunicativo soprattutto nella descrizione di fatti di violenze sessiste, fra giornalisti uomini e giornaliste donne?

No, non esiste perché siamo tutti immersi nella stessa cultura.

Gli strafalcioni o, peggio, le insensibilità di alcuni titoli (“Uccisa dal marito che pensava lo tradisse”…) li scrivono sia gli uomini che le donne perché apparteniamo allo stesso filone socioculturale. Dobbiamo sforzarci di utilizzare un linguaggio consono, evitando parole distorte e distorsive. È un compito fondamentale che ogni professionista dell’informazione deve imporsi. Ci si deve sforzare adottando registri semantici eccentrici rispetto alla cultura ancora dominante, sessista nei fatti.

Da questo punto di vista il confronto con le varie reti sociali è molto utile perché nella sua immediatezza aiuta la carta stampata in un percorso di autoconsapevolezza e supervisione.

L’utilizzo della declinazione di genere femminile in alcuni termini può rafforzare l’identità femminile?

Se ci si vuol riferire alla “questione” Treccani, penso che, semplicemente, Treccani abbia recepito la vera essenza della lingua italiana che ha straordinarie sfumature fra le quali la declinazione di genere. Personalmente trovo allucinante il dibattito che si è aperto circa le prese di posizione relative alla declinazione di genere delle parole, in particolare, di quelle che definiscono l’ambito professionale delle donne.

La discrasia è, ancora una volta, culturale e non linguistica. Le donne debbono avere l’autonomia di scegliere il proprio nome. Negli anni settanta il dibattito era centrato sul corpo (il corpo è mio e lo gestisco io), ora, sembra si sia spostato sul nome (il nome è mio e lo scelgo io. ndr) Io ho scelto di chiamarmi e farmi chiamare direttrice ma rispetto, senza alcuna giudizio, chi preferisce il termine declinato al maschile.

Viviamo in un Paese che giudica, in modo acrimonioso, il nome con cui le donne decidono di farsi chiamare.

Quali le direzioni di lavoro per traguardare la parità di genere?

Innanzi tutto riconoscendo la reale situazione di disparità in cui, ancora, vivono le donne. Il cambiamento può avvenire solo se sono chiare le condizioni di partenza. Ovvero, va compresa ed analizzata la condizione femminile in Italia, neutralizzando le disparità con ogni mezzo. In primis, l’ambito politico perché il gender gap lo si contrasta tramite l’elaborazione di leggi mirate che consentano il riconoscimento di diritti fondamentali in ambito assistenziale, formativo, economico oltre che professionale. Poi, certamente, ciascuna di noi può e deve agire, in proprio, nell’ambito delle proprie facoltà affinché gli equilibri cambino, siano più stabili, cercando di imprimere la propria identità nei rapporti personali col proprio partner, coi colleghi, nelle relazioni sociali, in genere. Certamente, il cambiamento rende insicuri e, spesse volte, soprattutto le donne più giovani si convincono di non essere all’altezza di determinati incarichi, di non riuscire ad essere sufficientemente brave e preparate per affrontare ruoli direttivi. In realtà mancano le occasioni per dimostrare la tenuta e le proprie capacità. Bisogna creare occasioni nuove alle donne, anche attraverso forzature. La mia storia professionale lo sta dimostrando.

La mancanza di occasioni, rende le donne più fragili e perennemente timorose nei confronti delle critiche circa il loro operato, oltre che vittime di negazione sociale.

La propria identità si costruisce e si rafforza, ogni giorno, diventando (come dice Nietzsche) ciò che si è.

Donne e Media: a che punto siamo?

I risultati della sesta edizione del GMMP

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di Monia Azzalini

Il Global Media Monitoring Project (GMMP) è il più ampio e longevo progetto di advocacy e di ricerca sulla rappresentazione delle donne nei contenuti dell’informazione, promosso e coordinato dalla World Association for Christian Communication, in collaborazione con una rete mondiale di ricercatori e ricercatrici aderenti all’iniziativa su base volontaria. (https://whomakesthenews.org).

Il progetto è nato nel 1995, durante i lavori di preparazione alla quarta Conferenza mondiale sulle donne organizzata dalle Nazioni Unite a Pechino, e raccoglie ogni 5 anni dati sulla presenza delle donne e degli uomini nei contenuti dell’informazione e sulla qualità dell’informazione quotidiana di stampa, radio, TV e, dal 2015, Internet e Twitter. I risultati consentono alla comunità internazionale di verificare lo stato di avanzamento delle donne rispetto ai due obiettivi fissati per il settore dei media dalla Dichiarazione e Piattaforma d’azione di Pechino, ovvero:

1• aumentare la partecipazione delle donne all’espressione e ai processi decisionali dentro e attraverso i media e le nuove tecnologie della comunicazione

2• promuovere una rappresentazione bilanciata e non stereotipata delle donne nei media.

I dati costituiscono una bussola utile a tutti i paesi aderenti al GMMP (116 nel 2020) per la realizzazione dell’uguaglianza di genere nei media, un settore che l’ONU per la prima volta nel 1995 ha dichiarato strategico per il miglioramento della condizione femminile in tutto il mondo.

La sesta edizione del GMMP Italia ha visto la partecipazione di 7 gruppi di ricerca afferenti all’Osservatorio di Pavia e alle Università Ca’ Foscari di Venezia, della Calabria, di Milano Bicocca, di Padova, di Roma La Sapienza e di Torino, coordinati da me insieme alla professoressa Claudia Padovani (Università di Padova). Il campione di analisi ha incluso 38 testate giornalistiche nazionali che sono dettagliate nel rapporto di ricerca disponibile onlinehttps://whomakesthenews.org/gmmp-2020-final-reports/

I risultati attestano una presenza delle donne come fonti o newsmaker mediamente pari al 26%: 24% per i mezzi di informazione tradizionali (radio, stampa e TV) e 28% per quelli digitali (Internet e Twitter), in crescita rispetto al 2015, rispettivamente di 3 e 1 punto percentuale. Sono senz’altro segnali positivi che confermano il progressivo avvicinamento dell’Italia al resto del mondo (25%), ma che risultano  ancora troppo deboli. Se pensiamo che le donne in Italia hanno un’incidenza superiore al 50% sull’intera popolazione, è evidente che i mezzi di informazione nazionale continuano a riflettere una società lontana da quella reale. Una maggiore aderenza alla realtà è attestata invece dalla visibilità delle giornaliste, mediamente pari al 41%, un valore in linea con la loro rappresentanza effettiva nella professione: 41,6% nel 2020, secondo i dati INPGI.

Per quanto riguarda le funzioni delle persone di cui si parla o intervistate nell’informazione, sia i media tradizionali sia i media digitali, registrano la prevalenza di tre categorie: le persone che fanno notizia in quanto argomento/oggetto della stessa, quelle  interpellate come portavoce di associazioni, aziende, enti, istituzioni, organizzazioni, partiti, etc. e le persone intervistate in qualità di esperte. Tolte le persone che fanno notizia in quanto protagoniste di eventi che superano la soglia di notiziabilità, portavoce ed esperte/i restano infatti le persone più visibili nell’informazione quotidiana italiana, o perlomeno in quella monitorata dal GMMP, che non include tutti i generi e sotto-generi informativi, e tuttavia riguarda un campione di notizie che raggiunge un pubblico molto vasto e diffuso. I criteri di selezione dei media monitorati dal GMMP tengono infatti primariamente conto di fattori di audience e readership.

Venendo ora ai dati per genere, i risultati sulle funzioni delle persone nelle notizie attestano una presenza femminile fra le persone oggetto/argomento di notizia perfettamente in linea con la media generale nei mezzi di informazione tradizionali (24%) e superiore nei media digitali (29%). Per quanto riguarda le portavoce, esse superano quota 24% sia nei media tradizionali (30%), sia nei media digitali (31%), attestandosi su un valore medio del 30%, raddoppiato rispetto al 2015. Le esperte invece si attestano su valori molto più bassi, registrando nel complesso una percentuale del 13%, risultato della media ponderata tra il 12% dei media tradizionali, rispetto al 18% del 2015, e il 16% dei media digitali, come nel 2015.

Un fenomeno che non si è invece verificato a livello globale, dove, al contrario, il contesto pandemico sembra aver favorito la visibilità delle esperte, cresciuta complessivamente dal 19% del 2015 al 24%, e sino al 29% nelle notizie correlate al Covid-19, che, come nell’informazione italiana, riguardano il 25% delle notizie monitorate. Quale fattore abbia sfavorito la visibilità delle esperte nelle notizie italiane è una domanda per ora ancora inevasa. Non sembra infatti possibile ascrivere la diminuzione delle esperte concomitante al dominio del Covid-19 nell’agenda dei media italiani a un mancanza di professioniste impegnate in materia. Solo la banca dati www.100esperte.it, nata nel 2016 su iniziativa dell’Osservatorio di Pavia e dell’associazione di giornaliste GiULiA, sviluppata dalla Fondazione Braccio e con il supporto della Rappresentanza in Italia della Commissione Europea, proprio per favorire la reperibilità di donne esperte da parte di media, ne mette a disposizione oltre 50. I fattori all’origine di questa grande “opportunità mancata” di includere le donne, e in particolare, la loro expertise, nell’informazione pandemica credo debbano essere cercati altrove.